«Mi diceva: ti brucio con l’acido. Negli occhi di mia figlia ho trovato il coraggio di denunciare»
La lettera di una donna maltrattata per 18 anni: «Non ero mai all’altezza. Mi picchiava e io mentivo a tutti per nasconderlo. Ora è stato condannato, e io sono libera»
Questa la testimonianza di una donna reggiana che dopo 18 anni di maltrattamenti ha deciso di dire basta.
Avevo 20 anni, tanti sogni e voglia di crescere velocemente, forse troppo... Infatti, quando mi accorsi di aspettare la mia bimba decisi di iniziare quest’avventura: sognavo una casa e un posto sicuro da offrirle. Non è andata proprio così. Ero incinta di otto mesi la prima volta che lui, quel mostro, mi picchiò, e io per difendere il mio enorme pancione caddi dalle scale e finii al pronto soccorso. Fu l’inizio di 18 anni di umiliazioni, paura, botte e tanta rabbia. Ero diventata una bugiarda seriale con i medici, con i miei genitori, con le amiche. Cadevo, inciampavo, erano sempre lividi procurati casualmente. Insomma, tutto tranne la verità perché la verità era che lui aveva sempre una scusa per essere aggressivo. Non pulivo bene, non valevo niente, non ero all’altezza delle donne della sua famiglia: ero una nullità.
Avevo solo voglia di scappare e urlare, ma non potevo, non avevo un posto dove stare, non avevo una coperta calda per la mia bambina. Dopo cinque anni arriva la seconda bimba, ho creduto alle sue parole: cambio, ti prometto che cambio, divento paziente, non urlo più, non ti spingo più, non ti rompo più il setto nasale perché poi, se lo vuoi sapere, è stata tutta colpa tua. Io non ho fatto niente, basta solo che tu cambi... Ho avuto il naso rotto e un livido enorme e tutto questo davanti alle bambine. «Sono scivolata, che “sbadata” che sono». Ma un giorno, guardando negli occhi mia figlia ho deciso di non essere più così “sbadata”, perché lì veramente ho pensato che fosse arrivata la mia ora. Si presentava durante la notte accanto al mio letto e mi sussurrava all’orecchio: “Io ti brucio, ti brucio nell’acido”. Ho iniziato a chiudere a chiave tutte le porte, finché una sera dopo un pugno nell’occhio mia figlia ha chiamato i carabinieri che lo hanno portato via, almeno così credevo. Via da casa ma non dalla nostra vita. È iniziato un altro incubo, fatto di inseguimenti, pedinamenti e appostamenti, anche di 300 telefonate al giorno, ma giuro mai, mai ho pensato di tornare indietro. Siamo rimaste senza un soldo, senz’auto, senza alcun sostentamento, ma io indietro non ci sono mai tornata e ho fatto bene. Quella volta, per la prima volta, non gli avevo creduto.
La mia prima denuncia la ricordo ancora, per non parlare delle successive. Odiavo entrare in quella caserma, quando mi vedevano arrivare erano piuttosto infastiditi. Non mi credevano, mi dicevano che se questa fosse stata la verità dovevo andare via da casa, ma se restavo era perché evidentemente mi faceva comodo: era da 18 anni che rimanevo. E allora cosa mi lamentavo a fare? Mi hanno creduta solo dopo un pugno in faccia, quando ormai l’evidenza non si poteva negare. Sono ancora molto arrabbiata con loro e anche con gli assistenti sociali che non si erano resi conto della gravità. I carabinieri erano ormai ospiti fissi a casa mia, venivano chiamati quasi tutte le sere, che vergogna! Con il vicinato e le persone che mi guardavano e spettegolavano senza capire l’enorme sofferenza. Poi c’è stato il processo. La mia prima udienza in tribunale, che posto strano, non ero mai entrata in un’aula di tribunale. Le lunghe, lunghissime attese prima che iniziasse la nostra udienza, la paura di rivederlo, le notti in bianco, l’angoscia di essere giudicata e non creduta da un giudice che mi guardava senza mai fare un cenno. Ogni giorno prima dell’udienza era sconforto, angoscia, paura: non riuscivo nemmeno a mangiare pensando di non essere creduta.
A farmi sentire subito protetta e al sicuro sono stati chi mi ha accolta al pronto soccorso e le volontarie della Casa delle donne, veri e propri angeli. Una persona in particolare mi ha ascoltata e abbracciata immediatamente: una dottoressa, la mia dottoressa del pronto soccorso. Mi ha visitata e aiutata a capire cosa fare perché io ero disperata e, mentre piangevo, lei mi curava le ferite, non solo quelle fisiche. Lei mi curava le ferite della mente e del cuore, quelle più dolorose, che restano indelebili. Ho sempre mentito in ospedale, ma a lei non potevo perché aveva già capito. Devo tanto alla mia dottoressa con la treccia lunga perché ha saputo ascoltarmi, indirizzarmi, nella mia massima libertà di fare o non fare, ma soprattutto mi ha aiutata a non mentire più prima di tutto a me stessa e poi a chi mi era accanto. Mi ha aiutata a non avere più vergogna perché non ero io a dovermi vergognare ma solo ed esclusivamente lui. Lui è stato condannato e io sono finalmente libera, libera dalle mie incertezze e dalle mie paure, perché anche questa volta, ancora una volta, ce l’ho fatta. Oggi ho un lavoro, quello che lui diceva che io non avrei mai avuto perché non ne sarei stata capace, ho un compagno che mi rispetta, mi aiuta e soprattutto parla con la bocca e non usa le mani. Io e le mie figlie non vediamo il mio ex marito da tre anni, sono stata tante volte vicina alla morte, ma grazie a chi mi ha creduta ho avuto la forza di dire basta. Oggi mi sento completa, viva, non ho più bisogno di usare quei maledetti occhiali d’inverno, oggi non mi nascondo più. Voglio che mi vedano perché si può uscire dal tunnel prima che sia troppo tardi, ora gli vorrei dire: «Guardami, guarda quante cose sono riuscita a fare, guarda quanto le mie figlie sono belle, avrò ferite indelebili ma sono viva anche se tu non avresti mai voluto». Ho avuto incubi, ho cambiato le mie abitudini e i miei sogni di bambina quando pensavo che un uomo aiutasse e proteggesse la sua compagna. Beh, sono riuscita anche in questo e oggi posso dire sorridendo che lui resta solo, è solo... solo un piccolo uomo. © RIPRODUZIONE RISERVATA