«La mia Giulia uccisa a 30 anni dal marito: il patriarcato è ancora potente»
Intervista alla madre di Giulia Galiotto, uccisa 15 anni fa dal marito lo scandianese Marco Manzini: «Raptus e gelosia? Non accetterò mai queste parole»
Chi racconta questa storia non è una vittima diretta di violenza di genere. È una madre che ha visto sua figlia strappata alla vita da un uomo che, qualche anno prima, prendendola in moglie, aveva promesso di prendersene cura. Con amore. È Giovanna Ferrari a dar voce a una tragedia che ancora oggi risuona come un monito. Sua figlia Giulia Galiotto, trent’anni appena, è stata ammazzata nel febbraio del 2009 dal marito, lo scandianese Marco Manzini, all’interno del garage della proprietà dei suoi genitori, a San Michele dei Mucchietti. «Le ho tirato una pietra in testa finché non ho sentito che smetteva di respirare», ha confessato lui stesso in tribunale, dopo che il tentativo di inscenare un suicidio era crollato sotto il peso delle evidenze. Giulia, infatti, non si era tolta la vita. Era stata uccisa con fredda brutalità dalle mani che le avevano infilato la fede nuziale il giorno del matrimonio. Le lacrime, le indagini, il ritrovamento del corpo. Poi il processo. Raptus e gelosia: ecco le due parole che si sono fatte largo nei verbali e che, come il ritornello di un tormentone estivo, ricorrono in ogni storia di femminicidio.
Ferrari, da anni attiva per le cause femminili, «non accetterà mai queste parole». «Perché non c’è nulla di improvviso nella violenza di genere – spiega –. Si tratta del frutto avvelenato di una cultura che, ancora oggi, affianca gli uomini al potere e le donne al dovere». «Prima della tragedia, noi vedevamo Giulia stare male. Lei si era confidata con noi su qualche aspetto della sua relazione, e noi le eravamo vicini – racconta Ferrari –. Non eravamo contenti di questo comportamento, ma mai ci saremmo aspettati che sarebbe arrivato a tanto. Nessuno se lo aspetta, di solito». E così, la tragedia si consuma. Il tempo aiuta a gestire il dolore, non a farlo scomparire, e si passa alle carte. C’è la speranza in un sistema giudiziario che faccia il suo corso, e che metta a posto, per quanto possibile, le cose. «Ma per Giulia non è stato così – sentenzia la madre –. I momenti più dolorosi, per noi famigliari, sono avvenuti all’interno del tribunale. La sua dignità è stata totalmente calpestata, perché hanno preferito impostare i processi sulla perizia psichiatrica costruita sulle sole parole di un assassino. Giulia, agli occhi di tutti, era diventata l’ostacolo che Marco, povero uomo incapace di gestire la separazione, ha dovuto eliminare per stare meglio con se stesso. Come se potesse decidere lui per lei». Come se fosse di sua proprietà. Ma Giovanna Ferrari insiste, perché il femminicidio «non è solo l’atto finale, quello che riempie le pagine di cronaca. È un processo lento e silenzioso – commenta – che si alimenta di campanelli d’allarme che rimangono inascoltati. È una cultura che sminuisce la gravità degli abusi, che normalizza i comportamenti possessivi e che nasconde una realtà molto più complessa, una rete di potere». Quella patriarcale: «Sorrido – riprende – quando sento dire che il patriarcato è scomparso. Si è semplicemente adattato ai tempi che corrono, ed è così potente da riuscire a giustificare la violenza come mezzo per affermare il proprio dominio. E in tribunale, questo sistema, si è rivelato davanti a me in tutta la sua crudeltà – continua –. Marco Manzini non solo ha ucciso mia figlia, ma ha anche trovato un contesto pronto a giustificarlo. Lui, infatti, è stato descritto come un uomo fragile, preda delle sue insicurezze. Giulia, invece, è stata dipinta come una donna “troppo esuberante e libera”». Oggi, alla luce della sua esperienza, Ferrari si batte affinché nessun’altra madre debba affrontare la stessa solitudine: «Durante il processo io ho sentito una solitudine enorme, un crollo totale della fiducia nelle istituzioni – spiega –. È per questo che con Udi cerco di andare sempre in tribunale, e di aiutare i famigliari: so quanto conta avere un supporto esterno quando c’è il patriarcato di fronte a te, che cerca di minimizzare, di giustificare, di far diventare la libertà una colpa». Perché alla fine, il patriarcato è un insieme di valori che, in una giornata come questa più che mai, devono essere messi in discussione. Il lavoro per il suo superamento è doloroso e faticoso. Ma doveroso. E nel frattempo, rimangono a terra i corpi di tutte quelle donne che, senza saperlo, lo hanno messo in crisi. Con i loro “no”, con i loro gesti di autonomia. Proprio come Giulia Galiotto. l © RIPRODUZIONE RISERVATA