Ausl, la dg Marchesi in pensione: «Il Covid ci ha cambiato, ma lascio una Ferrari»
Reggio Emilia: a pochi giorni dal pensionamento, la direttrice generale traccia il proprio bilancio e parla del futuro della sanità reggiana alle prese con bisogni sempre crescenti
Chissà se idealmente, quando passerà le “chiavi” dell’Azienda Usl di Reggio al suo successore Davide Fornaciari, gli dirà «Eccoti la Ferrari, guidala bene». Magari, proprio per non caricare di ulteriori responsabilità il suo successore, Cristina Marchesi, dal primo febbraio ufficialmente in pensione, non scomoderà il paragone con la Rossa di Maranello come invece ha fatto in questa intervista alla Gazzetta.
Invero, quando l’intervista finisce non c’è ancora l’ufficialità della scelta, poi caduta – come da pronostico – su Davide Fornaciari, e così la dottoressa Marchesi lascia intendere che non vuole sbilanciarsi. Cosa che farà poco dopo, quando la richiamiamo per dirle ciò che lei sa già: «Sono molto contenta – dice – che a succedermi sia Davide Fornaciari, mio carissimo collaboratore che sono certa sarà all’altezza del compito, valorizzando questa azienda di cui davvero conosce ogni angolo».
Una caratteristica, quest’ultima, che per la verità lo accomuna anche alla direttrice generale uscente. Non è così?
«Sì, del resto – dice Marchesi a pochi giorni dalla pensione – se escludiamo un breve intervallo di un paio d’anni a Modena, all’Ausl ci lavoro dal 1991, e in alcuni momenti, non lo nego, questa è stata davvero la mia casa».
In effetti, 34 anni sono una vita lavorativa intera, ma non v’è dubbio che quelli passati nell’ufficio di direttore generale hanno avuto un peso specifico diverso...
«Guardi, le assicuro che anche questi ultimi quattro anni sono stati vissuti in continuità, anche se il mutamento di ruolo ha il suo peso. Per tanto tempo ho lavorato in una squadra, poi negli ultimi quattro anni mi sono rapportata alla squadra che per mia fortuna è sempre stata composta da persone e professionisti dalle indubbie qualità: direttore sanitario, direttore amministrativo, direttore delle professioni sanitarie, tutti i direttori di presidio».
Invero, non tutti gli anni passati in via Amendola o nelle strutture sanitarie del territorio sono stai uguali, non è d’accordo? Penso ai drammatici mesi del Covid...
«La pandemia ha cambiato tutto, come uno tsunami che arriva all’improvviso e quando è passato con la sua forza distruttrice niente è più come prima. Mesi terribili che hanno testato la nostra resistenza umana, ma anche il nostro alto livello di risposte, sia nella prima fase, sia nella seconda parte dell’emergenza pandemica».
Il ricordo di quei giorni del 2020 è vivo in tutti noi. Ricordo il “paziente zero” della nostra provincia che portò a una parziale chiusura dell’ospedale Franchini a Montecchio...
«Ricordo tutto di quei giorni, i primissimi della cosiddetta fase 1, che io vissi da direttrice sanitaria dell’Azienda Usl. È stato probabilmente quello il periodo in cui ero più spesso all’Ausl e quasi mai a casa. E quando rincasavo, comunque non staccavo mai. Credo di aver fatto quasi due mesi filati di lavoro, senza mai nemmeno una mezza giornata di sosta. E con me un gruppo di professionisti di grande valore come Pietro Ragni, Giorgio Mazzi (l’altro candidato reggiano per la successione alla Marchesi nel ruolo di direttore generale, ndr) lo stesso attuale sindaco di Reggio, Marco Massari che all’epoca era il primario infettivologo del Santa Maria Nuova, oltre a tanti altri professionisti di valore che costituivano quella cabina di regia che si sarebbe rivelata poi fondamentale per superare la crisi».
Qual era il ruolo della cabina di regia?
«Nella prima fase, abbiamo prima dovuto capire quel che stava succedendo e come accade per la piena del Po, nel nostro caso abbiamo potuto sfruttare qualche piccolo vantaggio che derivava dalla posizione geografica di Reggio: in pratica ciò che accadeva in Lombardia noi sapevamo che ci avrebbe riguardato il giorno successivo. E così potevamo contare su un po’ di tempo in più per analizzare i dati che ci arrivavano continuamente dal nostro laboratorio di analisi che si è dimostrato assolutamente affidabile e decisivo. Nessuno in Emilia Romagna poteva oggettivamente contare su una struttura così performante come il nostro laboratorio di analisi, capace di districarsi in un mare di risultati e di esiti non sempre univoci. Se nella prima fase l’urgenza riguardava soprattutto la rete ospedaliera, e la necessità di rimodulare ogni giorno interi reparti o anche soltanto reperire nel tempo più rapido possibile letti di terapia intensiva, nella fase 2 il nostro lavoro è cambiato ma non è stato meno pesante».
La cosiddetta fase 2 è quella in cui lei ha raccolto il testimone da Fausto Nicolini passando dalla direzione sanitaria alla direzione generale...
«Nel luglio del 2020 speravamo che fosse comunque vicina la fine di questa pandemia ma eravamo degli illusi. Del resto bastava ricordarsi della Spagnola che fece due volte il giro del mondo prima di essere debellata. Da luglio in poi, abbiamo dovuto rispondere ad altre esigenze: c’erano migliaia di persone chiuse in casa, in quarantena, a cui dovevamo consentire di tornare alla vita di tutti i giorni uscendo finalmente di casa. Dopo aver loro salvato la vita, dovevamo dar loro la libertà».
A proposito di libertà, in questo caso malintesa: una ferita che sanguina ancora riguarda i medici e gli operatori sanitari che non si vaccinarono.
«È vero, fu un dolore per me, anche se va detto, che alla fine si trattò di una minoranza. E proprio a proposito della stragrande maggioranza degli operatori sanitari che si vaccinarono mi lasci sottolineare che per noi è un vanto il fatto che nessun medico e nessun operatore sanitario in servizio in quei mesi drammatici abbia perso la vita. E il merito va, tra gli altri, a un professionista esemplare come Pietro Ragni (risk manager dell’Azienda all’epoca dei fatti, ndr) che ringrazio ancora per il preziosissimo lavoro svolto in quei difficilissimi giorni. Son stati momenti difficili: fase uno posto in terapia intensiva, nella fase due di liberare le persone in quarantena. Le confesso una cosa...».
Prego...
«Prima del Covid, quando era ora di andare a dormire, mi premuravo di mettere il cellulare in una stanza diversa dalla camera da letto. Da quei giorni ho il cellulare sul comodino».
A suo avviso quei mesi drammatici hanno insegnato qualcosa?
«Se penso all’escalation di aggressioni verbali e fisiche al personale sanitario, lo stesso che ai tempi del Covid veniva idealizzato, mi viene da rispondere che... la strada è ancora lunga. Una cosa mi piace pensare: che abbiano insegnato l’importanza di un sistema sanitario pubblicouniversalistico in situazioni di emergenza come questa».
Peccato che le risorse non siano più sufficienti per far fronte ai bisogni di una popolazione sempre più anziana..
«Questa è la grande sfida che attende la nostra sanità nei prossimi anni: dare risposte a una sempre crescente mole di bisogni e al tempo stesso cercare di ottimizzare le risorse che si hanno a disposizione».
In questo senso vanno le linee guida del Decreto ministeriale 77 che ridisegna ruoli e funzioni della sanità territoriale..
«Esatto, e mi lasci dire che a Reggio Emilia non partiamo da zero. La nascita dei Cau per dare risposte alla cosiddettaa urgenza percepita che però urgenza non è, alleggerendo il più possibile il carico sugli ospedali come il Santa Maria Nuova sui cui vanno concentrati gli sforzi per le patologie più gravi».
Sarà anche vero che a Reggio non si parte da zero, ma resta, qui come altrove, uno scoglio enorme da superare. Ovvero quello del rapporto tra la sanità pubblica e la medicina di base. Per i medici di famiglia , ancora oggi legati da un rapporto di convenzione e non di dipendenza, il Dm 77 disegna ruoli radicalmente nuovi. E storicamente, le trattative con questa categoria non sono mai state tutte rose e fiori...
E invece io sono ottimista. E a differenza di chi pensa che l’unica strada percorribile sia quella del rapporto da lavoro dipendente al posto della convenzione io trovo interessanti i punti contenuti nella nuova convenzione in vigore dal primo gennaio che non cambia soltanto i nomi, ma permette ai nuovi medici, che magari non hanno sufficienti pazienti da seguire, di dedicare le ore mancanti ai Cau e alle altre strutture sul territorio. E man mano che arrivano i pazienti, si scalano le ore di presenza nei Cau. Certo, capisco anche che qualcuno sia spaventato da tanta novità, ma occorre prendere atto che davvero i tempi sono cambiati e la spesa pro-capite della nostra provincia, pur restando tra le più basse, è comunque cresciuta rispetto al passato».
Prima che venisse nominato Davide Fornaciari, una delle parole in cui ci si imbatteva negli ambienti della politica era: discontinuità. Si è fatta una idea di cosa potesse significare?
«Bisognerebbe chiederlo a chi la pronunciava. Personalmente se non la si riempie di contenuti è una parola che vuol dire tutto e niente. Certo nel nostro mondo la discontinuità è quasi sinonimo di cambiamento e questo è quotidiano. Si pensi soltanto alle sfide sul campo della spesa farmaceutica che drena molte più risorse di un tempo. Pensiamo soltanto ai costi delle nuove terapie antitumore o alla diffusione di interventi più banali come quelli di cataratta».
Un dibattito che è ancora attuale quando si parla di sanità a Reggio riguarda la fusionetra Azienda usl e azienda ospedaliera Santa Maria Nuova. Fu scelta positiva?
«Io credo di sì. So che qualche nostalgico non la pensa così ma in questi anni anche l’ospedale è cresciuto. Se andiamo indietro al 2019 oggi abbiamo 55 medici in più e 41 infermieri in più. Tra poco inaugurerà il Mire, destinato a diventare un punto di riferimento in regione, abbiamo eccellenze di livello nazionale, come il professor Salvarani nel campo della reumatologia. No, la fusione è stata una scelta giusta. Poi se vuole il mio parere, io non andrei oltre».
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