Gazzetta di Reggio

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Perseverance bis

«I testimoni di Aemilia imbeccati con domande e risposte scritte»

Ambra Prati
«I testimoni di Aemilia imbeccati con domande e risposte scritte»

In tribunale a Reggio Emilia il collaboratore di giustizia Salvatore Muto svela il retroscena: «Gianlugi Sarcone cancellò alcune frasi, il teste disse il contrario della verità»

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Reggio Emilia «Per smontare il maxi processo Aemilia abbiamo citato dei testimoni: anticipavamo le domande che avrebbero fatto le difese e cosa dovevano rispondere». È quanto ha riferito il collaboratore di giustizia Salvatore Muto, mercoledì in tribunale a Reggio, nell’ambito del processo Perseverance bis, filone sulla “specializzazione” ’ndranghetista delle false fatture. Nato per colpire coloro che “perseveravano” nel tentare di nascondere i beni (i reggenti delle famiglie Sarcone e Muto e dei Procopio di Gualtieri), i principali imputati di questa indagine coordinata dal pm della Dda Beatrice Ronchi sono già stati condannati con rito abbreviato a Bologna (150 anni di pene).

In rito ordinario a Reggio, davanti al collegiale presieduto dal giudice Luigi Tirone (a latere Matteo Gambarati e Francesco Panchieri), sono rimasti otto imputati, per reati fiscali con l’aggravante del metodo e della finalità mafiosa: Pietro Arabia, Gaetano Calabretta, Francesco Curcio, Stefano Carani, Cesare Muto, Giorgio Pascucci, Salvatore Procopio, Antonio Silipo e Giuseppe Silipo. Ieri i protagonisti sono stati i pentiti: prima Salvatore Muto, pentitosi dopo il processo Pesci (ramo mantovano di Aemilia) e poi Antonio Valerio. Il primo – autista che diventa uomo di fiducia di Francesco Lamanna –, videocollegato e di spalle da una località protetta, a proposito dell’imputato Salvatore Procopio ha distinto tra «l’affiliato mafioso» detto Chiricò (50 anni), già condannato dal gup di Bologna, e l’omonimo cugino odierno imputato 45enne – detto “Ambiente design” secondo la definizione fulminante di Valerio, poiché aveva uno showroom – «a disposizione dei Sarcone».

Il 45enne, spiega Valerio, «l’ho incontrato diverse volte, per fatture false o ditte da spolpare: era sempre con Nicolino Sarcone» e quest’ultimo che «amministrava le società intestate ai Procopio». Dopo l’ondata di arresti scattati nella notte tra il 28 e il 29 gennaio 2015, gli ’ndranghetisti si danno da fare con mezzi illeciti per elaborare una strategia e trovare testimoni subornati. Tra questi c’è appunto “Ambiente design”. «Per lui scrissi un foglio con le domande, che doveva essere approvato da Gianluigi Sarcone: per noi detenuti era lui il referente. Gianluigi mi cancellò intere frasi dicendo che non potevo mettere in difficoltà gli altri per salvare la mia posizione». Il manoscritto arrivò a destinazione, ma la testimonianza non sortì l’effetto sperato proprio a causa di quelle frasi espunte. «Su alcuni punti Procopio non rispose – ha detto Muto –. Su altri disse il contrario della verità». Dopo le scintille volate tra il pentito Muto e l’avvocato Carmine Curatolo videocollegato con il suo assistito Antonio Silipo («O mi fa parlare o si documenta... A Reggio c’erano i miei cugini dagli anni ’80, prima ancora mio zio Pierino: gli assetti a Reggio Emilia li conoscevo bene, dei Silipo si è sempre parlato con rispetto»), è stata la volta di Antonio Valerio, nemmeno inquadrato dallo schermo. «Non ho la formula di giuramento, ma gliela posso recitare a memoria signor giudice», ha esordito ridendo, parlantina sciolta e l’intera genealogia della ’ndrangheta cutrese-emiliana in testa. Valerio ha riconosciuto in foto e “inquadrato” quasi tutti gli imputati: da Pietro Arabia («detto Giampiero, ha iniziato con le fatture poi si è aperto agli altri») a Cesare Muto («detto Rino, intraneo alla cosca») fino a Procopio («serviva come schermo: lavori io e Nicolino Sarcone non potevamo prenderne, avremmo dato nell’occhio»). Quando il pm Ronchi ha citato l’anniversario dell’operazione Aemilia, Valerio è scoppiato in una risata: «Vede? Abbiamo girato due lustri e siamo ancora qui a parlare di ’ndrangheta». Incalzato dal legale Curatolo, Valerio ha precisato che non c’era una casa comune: «Ognuno voleva farsi i fatti suoi». l