Gazzetta di Reggio

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I 10 anni dal blitz di Aemilia

Mafia a Reggio Emilia, in 5 anni 200 roghi dolosi

Massimo Sesena
Mafia a Reggio Emilia, in 5 anni 200 roghi dolosi

Parla il procuratore Calogero Paci

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Reggio Emilia Sono passati dieci anni da quell’alba in cui Reggio si svegliò con il rumore che fanno le pale degli elicotteri dei carabinieri. E se qualcuno dovesse mai chiedersi cos’è rimasto della più grande operazione antimafia mai messa in atto sul nostro territorio, una risposta potrebbe trovarla nei 700 anni di carcere distribuiti nelle condanne del maxiprocesso Aemilia. Un altro modo di vedere la questione è apprendere che oggi, dieci anni dopo gli arresti, quasi la metà delle 120 persone condannate in via definitiva è a piede libero.

Non stiamo parlando di Nicolino Grande Aracri, colui che è unanimemente ritenuto a capo della ’ndrina nata e cresciuta tra Brescello e Reggio Emilia: “Mano di gomma” è in carcere e lì sembra destinato a restare, anche per via delle diverse condanne all’ergastolo che deve scontare. In questi mesi, a esser tornati ad essere liberi cittadini sono soprattutto quegli imputati che, nell’impianto accusatorio, andavano a formare la schiera di interlocutori compiacenti di coloro che invece erano organicamente affiliati alla cosca Grande Aracri. Un terzo modo, invero più inquietante di analizzare il “lascito” di Aemilia è spiegare ciò che sta accadendo con gli strumenti di cui la società – dagli arresti di dieci anni fa ad oggi – si è dotata. Primo tra tutti, l’attenzione, le “antenne dritte” rispetto a ciò che accade. Tra coloro che – di mestiere – sono pagati per tenere le antenne dritte su ciò che accade c’è sicuramente il procuratore capo di Reggio, Calogero Gaetano Paci, che, all’indomani del decennale di Aemilia fornisce una particolare fotografia della situazione. A piede libero «È vero – dice il magistrato a capo della Procura di Reggio Emilia – molti degli imputati di quel processo che ha fatto epoca, oggi sono a piede libero perché hanno comunque pagato il loro debito con la giustizia. La maggioranza di queste persone costituiva nell’impianto accusatorio quella parte di società che aveva finito per scendere a patti con la ’ndrangheta. Per comodità, li abbiamo sempre chiamati colletti bianchi , per poterli comunque distinguere dagli affiliati al clan. Per queste persone, mi auguro e spero che abbiamo ripreso a camminare sulla retta via e voglio sperare che, dopo aver conosciuto anche il carcere, ora ci penseranno due volte prima di tornare a cacciarsi nei guai».

Fin qui, la parte “pedagogica”, con tanto di morale incorporata per coloro che furono corrotti dalla cultura mafiosa. Poi ci sono invece gli affiliati, i “soldati” di Nicolino Grande Aracri: tra questi figura Antonio Gualtieri, uscito dal carcere soltanto pochi mesi fa e ri-arrestato a novembre con l’accusa di tentata estorsione. Invero, se lui è finito di nuovo in carcere, altri affiliati al clan Grande Aracri, secondo gli inquirenti, sarebbero tornati alle loro attività. E altri affiliati che presto usciranno dal carcere dovranno essere tenuti d’occhio. L’elenco è già abbastanza inquietante: entro fine anno saranno scarcerati Antonio Muto e Luigi Silipo, l’anno prossimo toccherà a Pasquale Brescia. Come si muoverà la procura nei loro confronti quando saranno usciti dal carcere? Viene da chiederselo pensando a quel che fece un predecessore di Paci alla guida della Procura reggiana, Italo Materia. Primo magistrato a occuparsi di ndrangheta a Reggio Emilia, quando nel 2004 il boss Antonio Dragone stava per essere scarcerato dal carcere di Sollicciano, Materia gli fece visita per chiedergli se avesse intenzione di tornare a Reggio. «No, dottore – disse – io torno a Cutro». Dove lo attendeva un commando armato addirittura di un bazooka.

«Noi – spiega Paci – li terremo sotto osservazione per evitare che tornino a inquinare il tessuto sociale. E per farlo dovremo prevenire le loro mosse». Un aiuto, in questo senso arriva dal monitoraggio dei cosiddetti reati spia. False fatture Invero, per quella che è la storia delle infiltrazioni della ’ndrangheta a Reggio, i reati spia sono stati sin qui di due tipi. Uno è quello delle fatture false, delle cartiere che le cosche aprono e sfruttano con la complicità dei cosiddetti colletti bianchi. E su questa particolare tipologia di reati spia, sono nate e si sono affinate in questi anni anche le professionalità degli inquirenti. Pensiamo soltanto a quando nel maggio 1999 la polizia fece irruzione in casa di Antonio Valerio, il pregiudicato calabrese a cui – si scoprirà più avanti – Paolo Bellini aveva appena sparato, nel tentativo di ucciderlo. Gli agenti trovarono dietro una parete di cartongesso chili e chili di fatture false. Che magari, chissà, avrebbero potuto portare gli investigatori ad alzare il velo su Aemilia con largo anticipo. «Può essere, è plausibile pensare che sarebbe andata così – sottolinea oggi il dottor Paci – anche perché una delle cose che abbiamo imparato in questi anni è che quella che le cosche hanno messo in piedi assieme a imprenditori conniventi era un sistema vero e proprio».

Roghi dolosi Se nelle ultime settimane l’attenzione degli inquirenti è stata catturata dalle attività illecite di Antonio Gualtieri appena uscito dal carcere, sono anche altri i segnali che fanno dire alle forze dell’ordine che per quanto siano state importanti le condanne di Aemilia, i tentacoli della piovra stanno ricrescendo. E parliamo di altri reati spia che, a detta del procuratore capo, sono in preoccupante aumento. «In effetti – dice Paci – dal 2020 ad oggi i roghi di natura dolosa nella provincia di Reggio sono stati oltre 200 e se, nel 2020 erano stati 28, nel 2024 gli episodi incendiari in cui oltre al dolo, possiamo intravedere la matrice dell’intimidazione mafiosa sono stati 40 e la tendenza è sempre stata in aumento».

L’ultimo episodio, soltanto pochi giorni fa, con un escavatore dato alle fiamme in un cantiere. Il muro dell’omertà «In questa fase – spiega ancora Paci – anche grazie alla creazione di un database che consente a polizia, carabinieri, guardia di finanza e vigili del fuoco di condividere informazioni e risultati delle indagini». Difficile andare oltre il pur preziosissimo database e questo per un motivo molto semplice e anche molto preoccupante che ha un nome vecchio quanto inscalfibile: omertà.

«L’omertà esiste ancora – ammette il procuratore capo – e complica molto le indagini su certi fatti. Si pensi che per gran parte dei 40 roghi del 2024, su cui stiamo indagando, non esiste una denuncia. Di positivo – conclude Paci – c’è che i fatti di Aemilia, e soprattutto il processo che ha visto anche una nutrita e costante partecipazione di pubblico, hanno accresciuto nei cittadini una maggiore consapevolezza». © RIPRODUZIONE RISERVATA