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L’intervista

Paolo Crepet: «Violenza giovanile: servono regole. Stop ai social e al cellulare fino a 16 anni»

Ambra Prati
Paolo Crepet: «Violenza giovanile: servono regole. Stop ai social e al cellulare fino a 16 anni»

Lo psichiatra: «Maggiore età a 16 anni: responsabilizza. Reggio Children? Bellissima esperienza, ma il sistema educativo per i più grandicelli è venuto a mancare»

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Reggio Emilia «Ragazzini sempre più violenti? No, il problema è che servono regole. C’è bisogno di scelte coraggiose anche nella città di Reggio Children». È sempre una voce fuori dal coro Paolo Crepet, lo psichiatra, sociologo, saggista e opinionista italiano, è stato più volte ospite a Reggio e a breve (il 6 maggio) sarà a Modena, al teatro Storchi, per presentare lo spettacolo legato al suo ultimo libro “Mordere il cielo”.
Minori dai 13 anni sempre più protagonisti della cronaca nera, dal Covid in poi: un fenomeno preoccupante?
«Spero bene che qualcuno si preoccupi, già sarebbe molto, ma dubito che ci si preoccupi. Io vedo molta indifferenza. Il fenomeno non è di ieri e non è nato nemmeno dal Covid: mi occupavo del cyberbullismo vent’anni fa. A determinare la svolta è stato l’avvento dei social, che contribuiscono. Non possiamo chiudere gli occhi sull’utilizzo dei social network: sono macchine infernali, che tirano fuori la cattiveria, l’indifferenza nei confronti del prossimo, la volontà di visibilità. Si fa qualcosa solo per postare il video. Woody Allen diceva che si fa qualsiasi cosa per 5 minuti di celebrità, ora siamo arrivati a 5 secondi».
A partire da che età consiglia l’accesso ai social?
«Io sono per proibirli fino ai 16 anni. Punto e basta. Anche il cellulare lo consegnerei a 16 anni, come avviene in Svezia, in Inghilterra, in Australia, dove si è capito l’enorme effetto negativo che hanno sulla crescita a quell’età. E non serve a niente e a nessuno sapere dov’è tua figlia alle 10.30; anzi cercando di controllare i propri figli a distanza si comunica solo disistima e ansia. Ma Reggio non è la città di Reggio Children?».
In che senso?
«Reggio Children non è una vetrina di pedagogia, è la fucina del buon futuro di una città; una bellissima esperienza, che io ho seguito da vicino. Oggi cosa possiamo dire? Se una città ha inventato un nuovo modo di educare, con i famosi asili arcobaleno, com’è possibile trovarsi davanti a pre-adolecenti fuori controllo? Evidentemente c’è stato uno scollamento tra ciò che si fa con i bimbi piccoli e ciò che si fa con gli adolescenti: la cinghia di trasmissione del sistema educativo per i più grandicelli è venuta a mancare, è caduta la catena della bicicletta, nell’assoluta indifferenza dei genitori. Questi ultimi sono costantemente presi da altro: il tempo in cui si sta insieme con i figli è limitatissimo e la difficoltà scolastica è originata dalle difficoltà che la famiglia non è più in grado di gestire».
In crescita anche le denunce tra minori per violenza sessuale: l’immaturità sentimentale è aumentata?
«Certo. Mi pare che sia una società dove ci sono troppi avvocati, così come ci sono troppi psicologi. Non prendiamo tutto per oro colato: se un ragazzo ti dà una carezza non è una molestia, altrimenti si riempiono solo le aule del tribunale».
Su botte, furti e rapine tra studenti?
«Lì ci vogliono le regole: re-go-le. Senza regole non si va da nessuna parte. Se rubi il giubbotto di un altro prima lo devi restituire, poi ci dev’essere una conseguenza. Questo mondo “liquido” dove non si dice di no a nulla fa danni enormi… Pensiamo che l’attuale generazione, tra qualche anno, potrà diventare classe dirigente? ».
Come se ne esce?
«Dal sindaco ai cittadini, occorre tirarsi su le maniche e fare scelte coraggiose. Se a Bologna non si può viaggiare oltre i 30 km/h perché non mettere regole per i ragazzi? Non ho nessuna memoria della scuola in cui ci si mena, ho un’ottima memoria della scuola autorevole».
Qualche idea?
«Intanto metterei la maggiore età a 16 anni, perché questo responsabilizza. A scuola non devono entrare i genitori: è proibito, ci abbiamo provato, non aiuta. A scuola lo studente se la cava da solo con il prof, com’è sempre stato. E niente devices: si usano i computer nell’aula informatica. Poi c’è l’intelligenza artificiale, incognita enorme e su questo non ho idea di come potrà finire. Tra un anno rischiamo di non sapere se il compito di maturità l’ha fatto il ragazzo o una chat. La guerra tecnologica tra le grandi potenze è già iniziata e i fautori del futurismo digitale sono il vero pericolo».  © RIPRODUZIONE RISERVATA