Da Ventoso alla Nasa, l’ingegnere reggiano si racconta: «Ho lavorato a Ingenuity, l’elicottero lanciato su Marte»
Stefano Cappucci venerdì 14 marzo sarà ospite a Scandiano: per sette anni ha lavorato negli Stati Uniti
Scandiano Si avvicina l’incontro di venerdì 14 marzo – organizzato dall’associazione culturale Grandi Terre Reggiane – quando, alle 20, al negozio Niko Sports, in via Statale 2/B a Scandiano, arriverà l’ingegnere aerospaziale Stefano Cappucci. Nato a Ventoso di Scandiano, 33 anni, è da poco rientrato in Italia dopo aver vissuto per sette anni in America, a Los Angeles, dove ha lavorato alla Nasa, nel Jpl, Jet propulsion laboratory (centro di ricerca e sviluppo federale) a Pasadena.
Cappucci, qual è stato il suo percorso di studi?
«A Reggio Emilia ha frequentato il liceo scientifico Spallanzani. Poi mi sono trasferito a Torino, dove mi sono iscritto al Politecnico al corso di ingegneria aerospaziale, sia alla triennale che alla magistrale. Proprio durante la magistrale, ho avuto la possibilità di andare a fare un tirocinio in questo centro di ricerca Nasa a Los Angeles. Terminato il tirocinio mi sono laureato, e mi hanno proposto di tornare a lavorare da loro come ricercatore». Che esperienza è stata? «È stata molto bella. Ho incontrato tante persone che mi hanno insegnato tanto, ed è stata una opportunità per crescere sia come persona che come ingegnere. Quando hai la fortuna di andare a lavorare in un centro del genere, hai la possibilità di stare al fianco di massimi esperti. Sono stato una “spugna”, cercando di apprendere il maggior numero di informazioni possibili e di esperienza».
E di quale progetto si è occupato?
«Ho lavorato ad Ingenuity, l’elicottero lanciato su Marte nell’ambito della missione su Marte nel 2020. Poi ero nel progetto Nisar, un satellite radar terreste, nato da una collaborazione tra la Nasa e l’Agenzia Spaziale Indiana. Infine altre ricerche legate alle tecnologie per satelliti e sonde in ambito di controllo termico».
E adesso è tornato in Italia?
«Sì esatto. Dopo la Nasa ho lavorato per una start-up che fa razzi, sempre in ambito di controllo termico per circa due anni e mezzo, negli Usa. Poi alla fine del 2024 sono tornato in Italia». Che cosa l’ha spinta a tornare? «Ero stanco dell’America e del loro stile di vita. Sono molto concentrati sul lavorare ad oltranza. Volevo tornare per essere più vicino alla mia famiglia, e dare il mio contributo e la mia esperienza alla comunità aerospaziale italiana».
Adesso dove lavora?
«In un’azienda che si chiama The Exploration Company, che ha l’obiettivo di costruire una capsula che trasporti i cargo verso la Stazione spaziale internazionale, e in futuro verso Stazione spaziali commerciali ed eventualmente anche astronauti. Ha diverse sedi, tra cui Torino, Roma, Bordeaux e Monaco di Baviera. È una start-up molto in crescita. Era l’opportunità giusta per fare quello in cui sui sono bravo, qui in Italia».
Gli organizzatori auspicano che all’incontro del 14 marzo ci siano tanti giovani scandianesi. Cosa dirà loro?
«Non ci sono formule magiche. Bisogna essere fortunati, ma anche curiosi e fare tante cose diverse. Per diventare ingegnere, questa è un’attitudine fondamentale. Studiare è importante, ma ci sono anche altri aspetti nella vita. Per lavorare nello spazio, non bisogna essere per forza ingegneri. Ci sono tanti altri ambiti collegati».
Adesso abita a Torino, ma è rimasto legato a Reggio Emilia?
«Certo, soprattutto al territorio dell’Appennino. Tutti i miei nonni erano originari di Toano. Torno spesso da queste parti. Mi sono ridotto parecchio, passando da Los Angeles a Torino, ma mi trovo bene comunque».
L’è mancato l’erbazzone quando era in America?
«Chiaramente (ride, ndr). Ho sentito la mancanza, in quest’ordine, della mia famiglia e del cibo italiano». © RIPRODUZIONE RISERVATA