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Il delitto di Novellara

Il cuore diviso di Ali Haider: dalla fedeltà alla famiglia alla lotta in nome della sorella Saman

Jacopo Della Porta
Il cuore diviso di Ali Haider: dalla fedeltà alla famiglia alla lotta in nome della sorella Saman

Oggi il giovane studia in un professionale e lavora come cameriere

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Bologna. Ali Haider è un uomo solo.

Nel maggio 2021, a 16 anni, ha vissuto il trauma dell’uccisione della sorella per mano della sua famiglia nelle campagne di Novellara.

Fino a quel momento, aveva condiviso i valori della cerchia familiare senza metterli in discussione: del resto era arrivato in Italia da poco più di quattro anni e non aveva alcun motivo per pensare che ci fosse qualcosa di sbagliato nei suoi genitori.

Dopo il delitto, un profondo conflitto interiore è esploso dentro di lui, lacerandolo tra l’amore per la sorella e quello per i genitori.

Una tempesta di emozioni e sentimenti contrastanti ha messo a dura prova il suo equilibrio, portandolo progressivamente a un doloroso distacco dalle regole imposte dalla sua cultura.

«Da quando sono in comunità tutto è cambiato e mi sento anche di essere italiano: in quei giorni lì avevo la stessa mentalità di loro, ora come ora penso che per me hanno fatto una cosa sbagliatissima», aveva raccontato in aula a Reggio Emilia nell’autunno del 2023. Ha continuato quel percorso e anche adesso, che ha 20 anni, è seguito dai servizi sociali dell’Unione Bassa Reggiana, studia in un professionale e lavora come cameriere, seguendo un desiderio che era stato della sorella. Il giovane non vive più in una comunità ma in un motel.

La morte di Saman, la fuga dei genitori, la pressione degli inquirenti e quella mediatica lo hanno travolto: un peso enorme per un minorenne. Anche ieri chi era in aula ha potuto constatare con i suoi occhi quanto questo sia ancora vero.

Un elemento significativo del suo percorso è stata la trasformazione del rapporto con la sorella, che con il tempo è arrivato a idealizzare.

Se in passato ne criticava l’atteggiamento ribelle, così come gli era stato insegnato fosse giusto, con il tempo si è identificato in lei, al punto da tatuarsi il suo nome sulla pelle e ha cercato di farla rivere nei suoi comportamenti.

Durante la latitanza in Pakistan dei genitori, Ali Haider ha continuato a sentirli al telefono esprimendo rabbia e pentimento.

I genitori hanno cercato di farlo desistere dal testimoniare, mentre la madre ha fatto leva sui suoi sensi di colpa. «Pensa a tutte le cose, i messaggi che ci facevi ascoltare, pensa e poi dì se i tuoi genitori sono sbagliati», gli ha detto in una telefonata. Era stato lui a mostrare alla famiglia la foto del bacio che Saman aveva pubblicato sui social ed era a lui che i genitori avevano chiesto di spiare la 18enne.

La Corte d’Assise di Reggio Emilia ha giudicato duramente Ali Haider, ritenendo che avrebbe dovuto essere indagato per l’omicidio della sorella. Nella sentenza è scritto che all’inizio è stato «mendace» e poi quando ha iniziato a collaborare lo ha fatto «serbando un contegno tutto improntato al tornaconto personale suo e, soprattutto, dei suoi genitori». Aspetto, quest’ultimo, che in parte è emerso anche ieri quando gli sono state fatte domande sul padre e la madre.

In particolare una frase è tagliente. Per i giudici di primo grado il fidanzato Saqib e il fratello Alì «si sono professati vicini a Saman solo dopo la sua uccisione». Un giudizio pesantissimo, soprattutto se si pensa che comunque è stato lui il primo a squarciare il muro delle menzogne della famiglia Abbas dicendo chiaramente che la sorella era morta, quando ancora gli altri sostenevano tesi incredibili («è scappata ancora una volta») e il cadavere non era stato trovato.

Il suo ritorno in aula, come testimone puro e non come indagato, segna una svolta significativa.

Il 20enne ha l’opportunità di riscattare il suo nome e dimostrare la genuinità dei suoi sentimenti nei confronti della sorella.

In ballo in questo processo di secondo grado c’è anche questo.

Mercoledì, il giorno prima di comparire in aula, è stato malissimo. Ha rivissuto momenti troppo dolorosi. Quando è comparso in tribunale faticava a parlare.

Il presidente della Corte d’Assise, Domenico Stigliano, gli ha ricordato il dovere di dire la verità, anche perché la sorella possa avere giustizia.  

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