Gazzetta di Reggio

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Il processo

Br, dopo 50 anni Lauro Azzolini confessa: «A Cascina Spiotta io c’ero»

Serena Arbizzi
Br, dopo 50 anni Lauro Azzolini confessa: «A Cascina Spiotta io c’ero»

Colpo di scena all’udienza, l’ex brigatista al figlio del militare ucciso: «Mi dispiace». Quel giorno morì anche Mara Cagol, moglie di Renato Curcio

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Reggio Emilia «C’ero io quel giorno di 50 anni fa alla Spiotta!». Lo ha detto pubblicamente ieri mattina per la prima volta dopo mezzo secolo, con un colpo di scena inaspettato, restituendo un tassello importantissimo di uno dei grandi cold case italiani. L’ex brigatista reggiano Lauro Azzolini ha confessato per la prima volta - in pubblico, visto che era già stato intercettato mentre lo raccontava - che era lui il brigatista fuggitivo a Cascina Spiotta, il 5 giugno del 1975, giorno della sparatoria in cui morì il carabiniere Giovanni D’Alfonso, nel blitz per la liberazione dell’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia. Giorno in cui morì anche Mara Cagol, moglie di Renato Curcio, anch’egli imputato nel processo di Alessandria, con Azzolini e Mario Moretti. Una dichiarazione spontanea in cui l’ex “mister X” puntualizza la provenienza da Reggio Emilia, “città medaglia d’oro per la resistenza”, ricordando che un suo cugino partigiano venne ucciso dai nazifascisti. E d evidenzia numerosi dettagli di quel “minuto breve di 50 anni fa”, lo definisce, «un inferno che ancora oggi mi costa un tremendo sforzo emotivo rivivere, al termine del quale sono morte due persone che non avrebbero dovuto morire, il padre di Bruno D’Alfonso e Mara», afferma, esclamando: “Mi dispiace”, rivolto al figlio del carabiniere ucciso. «Allora il mondo che ci circondava era molto diverso da quello di oggi – afferma l’ex brigatista, oggi 82enne, che dichiara di essere – l’unico che ha visto quello che quel giorno è davvero successo. Cioè che quel giorno è successo quello che avevo scritto allora, in quella ricostruzione fatta per tutti gli altri compagni delle Br, trovata dai carabinieri mesi dopo a Milano. Voi la leggerete, io non ci riesco, neppure a distanza di 50 anni, perché mi fa rivivere i dettagli di una prolungata sofferenza». Azzolini ricostruisce cosa avvenne, con il suo arrivo a Torino da operaio, per poi entrare nella clandestinità dopo l’arresto di «due compagni della Colonna torinese». Per necessità di autofinanziamento si decise di organizzare il sequestro Gancia che avrebbe dovuto concludersi in pochi giorni, senza conseguenze.

«Invece già il giorno stesso del sequestro venne arrestato un nostro compagno che si dichiarò 'prigioniero politico' e l'indomani successe l’impensabile che stravolse tutto, perchè a causa del fatto e della nostra impreparazione ci facemmo prendere alla sprovvista – continua Azzolini –. Mara (Cagol, ndr) e io avremmo dovuto controllare a turno l’unico viottolo di accesso alla cascina, ma d’improvviso sentimmo dei colpi forti alla porta e guardando dalla finestra ci accorgemmo della presenza di un carabiniere. A entrambi cadde il mondo addosso e ci prese il panico. Ho sentito dire che saremmo stati istruiti e addestrati su cosa fare in quei casi, ma non è vero, non sapevamo assolutamente cosa fare: quel che ricordo è che decidemmo di fuggire abbandonando l’ostaggio». I due decisero di usare le due piccole Srcm. «Ma tutto precipitò, sentimmo colpi di arma verso di noi, rispondemmo con qualche colpo nel caos di una frazione di secondi – ricorda l’ex brigatista –. Prese le nostre auto pensammo di esserci riusciti, ma la carreggiata era sbarrata dall’auto dei carabinieri, io e Mara ci urtammo finendo la corsa sotto il tiro di un altro carabiniere che era spuntato all’improvviso. Vi fu la resa nostra. Uscito dall’auto mi affiancai a Mara che era già sul prato. Notai che sanguinava da un braccio, le chiesi se era ferita. Mi disse di sì ma che non era niente e che se c’era la occasione di tentare ancora di fuggire e risposi che avevo ancora una Srcm. Al suo cenno, la lanciai e mi misi a correre verso il bosco, convinto che Mara mi avrebbe seguito. Raggiunto il bosco mi accorsi che lei non c’era e allora guardai verso il prato della cascina e l’ultima immagine che ho di Mara, che non dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia alzate, disarmata, e urlava di non sparare». Azzolini riuscì a dileguarsi: «Il giorno dopo quando raggiunsi un Paese sulle prime pagine dei giornali seppi di feriti e vidi che Mara era morta distesa su quel prato dove l’avevo lasciata viva. Lo sconcerto, il dolore mi ha attraversato la carne come una lama. Poi il bilancio finale: un’altra morte come tragico epilogo di quella giornata. Con rispetto dovuto, è anche per quei due morti che non avrebbero dovuto esserci che non ho più potuto tornare indietro. Capisco che oggi questo sembrerà paradossale, ma allora per la mia coscienza di classe ha significato assumermi la responsabilità della scelta fatta». Azzolini ha consegnato la dichiarazione ai giudici. Al tempo stesso, la corte ha accolto l’eccezione presentata dall’avvocato difensore dell’ex brigatista, il legale Davide Steccanella, sulle intercettazioni, dichiarando inutilizzabili quelle effettuate tra la richiesta di riaprire il processo e l’autorizzazione del giudice. l