Morto in monopattino: «Umer era al suo primo giorno di lavoro»
Reggio Emilia, il cugino del 21enne ucciso dall’autobus: «Non incolpiamo nessuno: l’autista non l’ha fatto apposta»
Reggio Emilia «La mattina dell’incidente era al suo primo giorno di lavoro. Finalmente, dopo due anni di lavori precari, aveva un contratto regolare. Umer era felicissimo: tanto che, anche se doveva presentarsi alle 7.45, è partito in anticipo». A parlare è Alì Atif, cugino di Umer Maqbool, il 21enne pakistano travolto e ucciso alle 7 di martedì da un autobus Saca in via Turri.
Una storia di emigrazione e di riscatto, quella del giovane, nato il 15 gennaio 2004 nella città di Sargodha, nel Punjab. «Il padre e i due fratelli, di 23 e 26 anni, sono venuti in Italia in cerca di un futuro migliore. Umer aveva ottenuto il permesso di soggiorno grazie al ricongiungimento familiare ed era arrivato due anni fa. Era il più piccolo». Un’esistenza di sacrifici, quella degli uomini, qui a lavorare per mettere da parte il denaro necessario per far arrivare la madre e le due sorelle rimaste in Pakistan: il fratello maggiore lavora a Campogalliano, quello di mezzo a Sassuolo, Umer abitava con il padre in via Sforza, laterale di via Makallè. «Umer era impensierito perché non riusciva a trovare un’occupazione stabile: ne parlava spesso con me al telefono, gli dicevo di non preoccuparsi». Sabato scorso la svolta: un contratto in un’autofficina gestita da connazionali. «Umer era contentissimo – continua il cugino – Noi familiari insistevamo sul fatto che doveva prendere la patente per l’auto. E ora che aveva trovato lavoro aveva cancellato TikTok e altri social per non perdere tempo: voleva concentrarsi e conseguire la patente. Per lui era un nuovo inizio. Purtroppo il destino ha voluto diversamente». Le cose sembravano andare per il verso giusto, ai Maqbool. «Avevano raggiunto un po’ di stabilità e il padre aveva comprato casa e iniziato le pratiche per portare qui il resto della famiglia. Quando abbiamo saputo dell’accaduto, non riuscivamo a credere che Umer non ci fosse più: siamo rimasti shockati».
Subito dopo il sinistro padre e fratello sono stati rintracciati dalla polizia locale e alle 11 hanno eseguito il triste rito del riconoscimento. Ieri pomeriggio invece sono partiti per il Pakistan. «Era un volo programmato da tempo, per il padre. Vista la tragedia si è aggiunto il figlio 26enne: entrambi vogliono dare di persona la notizia alla madre e alle sorelle, che non sanno ancora del lutto». Qui in città Umer aveva tanti amici tra la comunità pakistana. «Era un bravo ragazzo: molto educato, responsabile, calmo. E molto curioso: aveva tanta voglia di vedere il mondo, oltre che l’Italia. Ogni fine settimana mi chiamava e mi chiedeva di andare a vedere la torre di Pisa o la Liguria o altri posti. Insieme al fratello di 23 anni, cui era legatissimo, abbiamo fatto tante gite nei dintorni». A proposito delle polemiche sulla sicurezza dei monopattini, il cugino mostra dignità. «È vero, Umer non portava il casco, ma vista la dinamica dell’incidente anche se l’avesse indossato non avrebbe avuto scampo. Sono andato sul posto: lui era minuto e magro, la ruota del bus gli è passata sopra il tronco e gli ha schiacciato l’addome, provocando un’emorragia interna che l’ha ucciso all’istante – conclude il cugino – Ci siamo rivolti a un avvocato, ma non incolpiamo nessuno: l’autista non l’ha fatto apposta. Non abbiamo desiderio di vendetta. È stata una tragica fatalità». © RIPRODUZIONE RISERVATA