Gazzetta di Reggio

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Il carcere visto da chi ci lavora. L’Ispettore Caringi: «I detenuti? Possono cambiare»

Giulia Lolli e Anna Del Rio*
Il carcere visto da chi ci lavora. L’Ispettore Caringi: «I detenuti? Possono cambiare»

L’intervista all’Ispettore di Polizia Penitenziaria dell’istituto penitenziario reggiano

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Per conoscere meglio il mondo del carcere attraverso gli occhi di chi ci lavora, abbiamo incontrato l’Ispettore di Polizia Penitenziaria Guido Caringi a cui abbiamo posto alcune domande.

Come mai ha scelto questo lavoro?

«È stato un amico a spingermi a partecipare al concorso, dopodiché, una volta entrato nel corpo di polizia penitenziaria, ho scoperto aspetti che non conoscevo e che ho apprezzato, come il rapporto che l’operatore deve avere con il detenuto: mi piace tantissimo perché mi permette di entrare nelle vite degli altri, sospendendo qualsiasi tipo di giudizio personale. Con il passare del tempo ho amato sempre di più questo lavoro, che si apprende sul campo. Esiste un corso di formazione dove vengono toccati tanti aspetti teorici che vanno dalla sfera giuridica agli aspetti socio-psicologici, passando per la pratica attraverso tirocini. Quando si arriva in istituto, devi anche un po’ “rubare” il lavoro agli operatori più esperti che hanno tanti anni di esperienza. Ho iniziato così, osservando gli altri e imitando quegli operatori di cui amavo aspetti comportamentali, professionali e il loro modo di interagire. Il resto è venuto da sé».

Lei oggi come interagisce con i detenuti?

«Utilizzo una comunicazione assertiva, il famoso ascolto attivo, soprattutto quando bisogna gestire eventi critici mi pongo in una posizione di grande rispetto dell’altro. Ascolto tutto quello che il detenuto ha a dire, tutte le sue istanze, e mi apro a qualsiasi tipo di possibilità, nel senso che evito atteggiamenti di chiusura che potrebbero innescare eventi ulteriori. Esistono delle tecniche di de-escalation che vengono utilizzate per abbassare le emotività, infatti, di fronte all’accadimento di determinati eventi, il detenuto tende ad esasperare le emozioni e in quelle situazioni il mio compito è proprio quello di restituire consapevolezza rispetto a quello che sta vivendo o quello che è accaduto per poi smorzare i toni e cercare di costruire insieme quello che potrebbero essere soluzioni».

Ha dei protocolli specifici da rispettare?

«Innanzitutto, noi abbiamo come faro la Costituzione, in particolare l’articolo 27 comma 3 che delinea la finalità della pena, che è quella rieducativa. Sebbene ultimamente si tende tanto a parlare di funzione polivalente della pena – che potrebbe avere tante funzioni, tante sfaccettature –, quella che la Costituzione riconosce come unica finalità è quella rieducativa, quindi questo è il nostro obiettivo. Poi abbiamo l’ordinamento penitenziario (legge 354/1975) che detta le regole sia per i detenuti che per gli operatori, mentre le varie circolari dipartimentali vanno a esplicitare in dettaglio tutto quello che nelle altre fonti normative non troviamo. Il nostro ordinamento penitenziario è invidiato da tutto il mondo; all’epoca, nel 1975, fu una legge di compromesso tra le maggiori forze politiche del tempo e ancora oggi non ha perso la sua attualità, sebbene ci siano varie istanze per modificarne alcune parti dato che comunque è una normativa che ha ben cinquant’anni di età e, come tale, andrebbe rivista: il carcere deve accogliere anche quelli che sono i cambiamenti sociali».

Qualche esperienza significative con i detenuti che può raccontarci?

«Penso in particolare a un detenuto che ha avuto un percorso inizialmente un po’ turbolento ma che poi, accettando di buon grado tutte le offerte educative che gli sono state proposte nel corso della sua lunga detenzione, ha avuto un cambiamento significativo. Mi ha fatto capire che questo lavoro può avere un significato profondo: come recita il nostro motto di polizia penitenziaria “despondere spem est munus nostrum”, il nostro compito è quello di garantire speranza, di restituire una possibilità ultima al detenuto di reinserirsi all’interno della società, di fare in modo che riprenda i rapporti che si erano interrotti bruscamente quando ha commesso il reato».

Ha incontrato altri detenuti che hanno avuto dei cambiamenti positivi?

«Sì, capita spesso che detenuti acquistino con il tempo consapevolezza del luogo in cui si trovano e scatti in loro un desiderio di cambiamento che porta a situazioni di svolta che hanno dell’inverosimile, grazie anche alla professionalità degli operatori penitenziari che incontrano. È infatti la sinergia tra i vari operatori che permette al detenuto di capire il senso del suo essere e di fare un percorso brillante che lo restituisce cambiato alla società: questo per noi è molto bello, ci fa cogliere con mano la bellezza di questo lavoro, che ti dà la possibilità di confrontarti con tante persone, molteplici situazioni e diverse realtà, così da farti sentire fortunato rispetto a tutto quello che c’è all’esterno».

Come viene gestita la sicurezza durante le visite di familiari o avvocati?

«I colloqui, settore di cui sono responsabile, sono uno degli elementi del trattamento, insieme al lavoro, all’istruzione, alle attività ricreative, sportive, culturali e ai rapporti con la famiglia. I familiari che effettuano colloqui vengono sottoposti a controlli, svolti anche con l’ausilio di strumenti tecnologici quali il metal detector. Se si ha il sospetto di ritenere che qualcuno possa portare cose non consentite, si procede alla perquisizione. Stesso discorso per i colloqui con il difensore».

Lei oggi risceglierebbe il suo lavoro?

«Assolutamente sì perché mi ha permesso di sperimentare che quando gli aspetti umani e professionali si uniscono possono diventare il faro di qualsiasi intervento che ci viene richiesto. È bello vedere una persona che esce cambiata da questo istituto ed è emozionante incrociare all’esterno un ex detenuto che ti ringrazia per quello che hai fatto, per i consigli che gli hai dato, per il tuo operato. Sono gli aspetti di gratitudine che spesso mancano nel quotidiano e che, quando arrivano, danno la carica giusta per continuare e restituiscono un senso ultimo a questo lavoro. Attorno al pianeta carcere c’è una serie di miscredenza, di non conoscenza e cattiva informazione e ad emergere sono esclusivamente gli aspetti negativi che mistificano la realtà e sminuiscono il lavoro silenzioso di tanti operatori che ogni giorno contribuiscono a quella tensione verso la rieducazione che rappresenta la finalità della pena». 

*Studentesse del Motti

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