Hikikomori, cresce il numero di giovani che staccano la spina dal mondo “ostile”
La pandemia da Covid-19 ha amplificato il problema. Sono oltre 100mila in Italia, il 70% maschi tra i 15 e i 30. E il bullismo spesso c’entra
Dietro la porta chiusa di una stanza può celarsi il silenzioso grido d’aiuto di un’intera generazione. Non si tratta solo di ragazzi pigri, ribelli o “troppo sensibili”: gli Hikikomori sono giovani che scelgono volontariamente di isolarsi dal mondo, talvolta per anni, ritirandosi da scuola, lavoro, amici e persino dalla famiglia. Non escono più di casa, spesso neppure dalla loro camera. Mangiano, dormono, vivono chiusi tra quattro mura, connessi solo con il mondo digitale, ma scollegati da quello reale. Il termine Hikikomori nasce in Giappone negli anni ’80 e letteralmente significa “stare in disparte”. Il fenomeno esplode in una società fortemente orientata alla performance, dove il fallimento scolastico o lavorativo è vissuto come un disonore. Inizialmente considerato una peculiarità culturale nipponica, oggi è chiaro che l’Hikikomori è un fenomeno globale. E l’Italia non fa eccezione. Questo non è un disturbo psicologico in senso stretto, ma un comportamento di ritiro sociale estremo e prolungato. I giovani coinvolti spesso non hanno una diagnosi psichiatrica, anche se possono convivere con forme di ansia sociale, depressione o fobie. In molti casi, sono ragazzi intelligenti, sensibili, con una forte interiorità, che però non riescono a sostenere il peso di una società ipercompetitiva e giudicante. La pandemia da Covid-19 ha amplificato il problema, offrendo una “giustificazione” al ritiro sociale e rendendo più difficile il ritorno a una vita attiva. Ma il fenomeno era già presente da anni. In Giappone si stima che siano oltre 1 milione, con casi anche di adulti tra i 40 e i 50 anni. In Italia, secondo i dati dell’associazione Hikikomori Italia, il numero di giovani ritirati potrebbe superare le 100.000 unità, anche se molti vivono nell’ombra, senza che nessuno se ne accorga. Il 70% dei casi riguarda maschi tra i 15 e i 30 anni, spesso di estrazione medio-alta, con storie scolastiche travagliate o segnate da episodi di bullismo.
Nel resto d’Europa il fenomeno inizia a essere riconosciuto, ma i dati ufficiali scarseggiano. In Francia e Spagna sono attivi i primi centri di ascolto. In Germania alcune ricerche universitarie stanno cercando di quantificare il problema. Tuttavia, in Italia il fenomeno appare più diffuso, complice anche un contesto familiare spesso iperprotettivo, che tende a nascondere il disagio per timore del giudizio sociale. È importante distinguere tra il fenomeno sociale dell’Hikikomori e un disturbo del ritiro sociale grave di tipo clinico. Il primo è una forma di ribellione passiva, un rifugio in risposta a una realtà vissuta come ostile. E si vive una vita “normale” (lavorano online, tengono relazioni a distanza e si gestiscono attraverso i cellulari e i pc). Il secondo, invece, è spesso correlato a patologie più complesse come depressione maggiore, fobia sociale, disturbi della personalità o dello spettro autistico. In questi casi, il ritiro è sintomo di una sofferenza più profonda e richiede un trattamento terapeutico specialistico. Ma la differenza è minima. Dunque verrebbe da chiedersi cosa si possa fare per prevenire o aiutare: di fronte a un figlio che si chiude in camera e smette di uscire, la reazione più istintiva è spesso quella di spronarlo, forzarlo o rimproverarlo. Ma è un errore. Gli Hikikomori non sono semplicemente “viziati” o “immaturi”: stanno lanciando un SOS con le uniche modalità che conoscono. I genitori possono – e devono – intervenire, ma con delicatezza. Serve creare un clima di ascolto e non giudizio, evitando pressioni e confronti. Il dialogo deve essere empatico, anche se frammentario. È utile coinvolgere professionisti esperti del fenomeno, che possano avvicinarsi al ragazzo rispettando i suoi tempi. In molti casi, i primi passi della terapia avvengono direttamente a casa, con sedute individuali online o interventi domiciliari. Non esiste una cura “standard” per l’Hikikomori, ma percorsi personalizzati. La psicoterapia cognitivo-comportamentale è uno degli approcci più utilizzati, utile per lavorare su pensieri disfunzionali e ansie sociali. In altri casi si opta per un trattamento sistemico, che coinvolge anche la famiglia nel processo di cambiamento. Le tecnologie, spesso viste come parte del problema, possono diventare strumenti terapeutici: molti ragazzi accettano un primo contatto via chat o videochiamata, prima di arrivare a un confronto vis à vis. La sfida è lunga, ma non impossibile. Gli Hikikomori non sono “persi”: sono giovani che cercano uno spazio dove poter esistere senza sentirsi costantemente inadeguati. La società, la scuola, la famiglia devono imparare a riconoscere i segnali del disagio e ad aprire porte, anche quando sembrano chiuse da anni.l