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L’intervista

Referendum, l’assessora Mahmoud: «La cittadinanza è stata confusa con immigrazione e insicurezza»

Alice Benatti
Referendum, l’assessora Mahmoud: «La cittadinanza è stata confusa con immigrazione e insicurezza»

L’assessora del Comune di Reggio e attivista per i diritti umani analizza e commenta i risultati referendari

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Reggio Emilia «Il giorno dopo, a mente fredda, si fanno i raffronti. Dopo la delusione per gli esiti elettorali, si cercano le ragioni. Le motivazioni per cui nel quadro di molte conferme (astensionismo strutturale e crescente, sensibilità dell’elettorato di sinistra e non solo verso i temi legati alla dignità del lavoro), il risultato del quesito sulla cittadinanza è il colpo che non ti aspetti, la ferita nella ferita».

Comincia da qui la riflessione dell’assessora alle Politiche educative del Comune di Reggio Emilia Marwa Mahmoud, che all’impegno politico ha sempre coniugato l’attivismo per i diritti umani, civili e per la cittadinanza, all’indomani dei risultati del referendum senza quorum che a livello nazionale ha visto quasi un elettore su cinque del Pd (15-20%) votare "no" al quesito che proponeva di ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter avanzare la domanda di cittadinanza.

Assessora, perché a sinistra tanti elettori Pd hanno "tradito" le indicazioni del partito votando "no"? Che risposta si è data?

«Credo ci siano diverse ragioni. Innanzitutto, molti non hanno compreso che si trattava di modificare solo uno dei criteri per potere richiedere la cittadinanza ovvero quello del numero di anni di residenza in Italia, mantenendo tutti gli altri: dall’assenza di precedenti penali a una buona conoscenza della lingua italiana fino al possesso di un reddito stabile da anni. Detto ciò, bisogna fare i conti con il fatto che una parte della sinistra è ormai condizionata da una narrazione viziata dell’immigrazione, raccontata per anni nei termini dell’emergenza, dell’invasione e della minaccia. E questo ha portato a sovrapporre il tema dell’immigrazione a quello della cittadinanza. Ora sta a noi, come Partito Democratico, spiegare di più e meglio che criminalità e disagio sociale sono figli dell’emarginazione e che tanto più le persone saranno messe nelle condizioni di essere tutelate tanto più si ridurranno le condizioni che portano a questa marginalizzazione. Sicuramente, poi, ha giocato un ruolo il governo, che non ha promosso una campagna di comunicazione istituzionale per comprendere i temi su cui eravamo chiamati alle urne. La strategia è stata quella di annullare un dibattito sui contenuti e non informare le persone, facendo prevalere messaggi di propaganda invece che l’approfondimento. Nonostante tutto, il comitato per il "referendum cittadinanza", le associazioni e la Cgil - che ha compiuto davvero un’impresa eroica -, ce l’hanno messa tutta per narrare le storie di 2.5 milioni di ragazzi e ragazze la cui vita, se avesse vinto il sì, oggi avrebbe davanti meno ostacoli».

Cosa le fa dire che buona parte di quell’elettorato di sinistra che ha votato "no" lo ha fatto perché non ha compreso bene il quesito? Si è trattato di questo, quindi, secondo lei, piuttosto che della precisa convinzione che il dimezzamento dei tempi di attesa fosse sbagliato?

«Penso che ci sia stata una concorrenza di cause. Posso dire che la fatica a comprendere il quesito l’ho riscontrata personalmente durante le iniziative sui territori, che mi hanno vista impegnata a spiegare agli elettori che si andava soltanto a semplificare uno dei criteri (quello dei tempi permanenza prima di poter avanzare la richiesta, ndr). Dall’altra parte, come dicevo prima, bisogna fare i conti con il fatto che c’è chi, tra i nostri elettori, pur avendo compreso il quesito hanno consapevolmente votato "no" perché ha attecchito la narrazione viziata della destra che sovrappone immigrazione e cittadinanza».

Da destra si è parlato di un referendum promosso dalla sinistra per correggere, almeno in parte, i propri errori, come l’abolizione dell’articolo 18. Quanto pensa abbia pesato questa narrazione sull’astensionismo?

«Penso che si sia inserita in una cornice crescente di astensionismo determinata da una sfiducia diffusa verso le istituzioni. Purtroppo la disaffezione al voto non è una sorpresa, così come non lo è il fatto di non essere riusciti a raggiungere il quorum. Io vedo comunque segnali importanti: il primo è che 14 milioni di persone hanno detto "sì" (o quasi sì) ai cinque quesiti, un numero che supera i voti per la destra alle politiche; l’altro che sono stati moltissimi i fuori i sede, a cui per la prima volta è stata data la possibilità di votare, a recarsi alle urne. Aggiungo che probabilmente parte dell’elettorato è stato condizionato dal fatto che le radici dei quattro quesiti sul lavoro erano quelle di una resa dei conti interna al partito».

Le scuole sembrano essere rimaste gli unici posti - e lo dico per esperienza personale dopo due anni di lavoro nelle aule del triennio delle superiori reggiane per il progetto Scuola2030 della Gazzetta - in cui italiani e stranieri (anche se molti solo nel cognome, dato che sono nati a Reggio) crescono insieme, gli uni di fianco agli altri. È dalla scuola che bisogna ripartire per costruire una narrazione diversa della cittadinanza?

«Sono d’accordo, la scuola è rimasta l’ultimo baluardo democratico in cui i ragazzi e ragazze costruiscono un senso di appartenenza a prescindere dal passaporto che hanno in tasca e bisogna continuare a lavorare per rimuovere quegli ostacoli, come ci indica l’articolo 3 della Costituzione, "che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana". Molto spesso oggi i ragazzi senza cittadinanza non possono partecipare a gite scolastiche, a concorsi sportivi, artistici e culturali. Oggi è necessario capire che risposta possiamo dare a questi ragazzi per "convocarli" come cittadini a pieno titolo nel dare un contributo al nostro paese». © RIPRODUZIONE RISERVATA