Luciano Ligabue: «Il Campovolo è magia. La speranza? Le donne. A Gaza l’orrore, basta»
L’incontro con il rocker di Correggio alla vigilia del quinto atto: «Non possiamo più ignorare il cambiamento climatico»
Reggio Emilia Certe notti la musica sa esattamente dove andare. E Luciano Ligabue lo sa meglio di chiunque altro. Venerdì, alla vigilia del grande concerto alla Rcf Arena, si presenta davanti ai giornalisti con la potenza sommessa di chi ha attraversato trent’anni di rock e ne porta ancora addosso il suono, i segni e la grazia. In conferenza stampa, tra il ricordo vivo del primo Campovolo da record – ormai vent’anni fa – e l’eco di un presente tormentato, da Gaza all’Ucraina, il Liga guarda il mondo con occhi lucidi e parole misurate. Parla del tempo che scorre, di un palco che – come certe notti – non tradisce mai. Le prime due domande sono nostre. Ma quel dialogo collettivo in sala stampa è andato, più o meno, così.
Ha detto più volte che il Campovolo è un posto di magie. Quali sono quelle che ha visto accadere? E, se pensa al Campovolo come a una sorta di “specchio”, oggi chi vede riflesso mentre si prepara a salirci di nuovo?
«Campovolo, sin dall’inizio, ci è sfuggito quasi dalle mani. Vent’anni fa abbiamo reclutato due agenzie per organizzarlo. Neanche lontanamente avremmo ipotizzato un simile successo: nessuno è profeta in patria, dicono, ma vedere il crescere della folla ci fece persino pensare di piazzare quattro palchi, per raggiungere anche chi era più lontano, quasi a 300 metri. Alla fine capimmo che se tecnicamente nessuno lo aveva mai fatto, un motivo c’era. Ma ricordo ancora l’emozione di “Urlando contro il cielo” in chiusura del live, nonostante qualche problema tecnico. Ogni edizione di Campovolo è sempre stata più di una festa: serviva qualcosa che avesse profondità. Così nacque l’idea della due giorni. Con il fan club, fondato da mio fratello Marco (mentre parla è seduto accanto a lui, ndr), scoprimmo che l’amore per la musica poteva generare amicizie, relazioni, famiglie: ci sono nati persino dei figli. Ricordo il Campovolo del 2011, con la luna piena: era così speciale che dissi: “Se stasera qualcuno fa un figlio, crescerà benissimo”. Se questo non è magia, non so cos’altro lo sia».
Quanto può essere importante questo palco per chiedere lo stop al massacro di Gaza?
«Su Gaza, ogni parola rischia di sembrare insufficiente rispetto all’orrore e all’indignazione che provoca. Ma non possiamo tacere: abbiamo deciso di inserire lo speech di Benigni, che riesce a unire indignazione e commozione parlando dei bambini, tema ineludibile per chiunque si reputi umano. Ma non ci fermeremo a Gaza: denunceremo (lo ha fatto ieri sera, ndr) i massacri in Ucraina, Sudan, nei cinque sei Paesi dove ci sono dei conflitti. Personalmente, penso a quel pezzo “Il mio nome è mai più” uscito 26 anni fa: è la stessa urgenza che sento oggi».
Sono 20 anni di Campovolo, il primo di suo figlio Lenny sul palco... è pronto?
«Sto cercando di trasmettergli che quello che viviamo è un privilegio enorme, e che serate come quella di domani (oggi, ndr) sono un dono. Se tutto andrà come deve, il nostro compito è quello di godercele fino in fondo, senza però farci travolgere dall’emozione. Sto cercando di rassicurarlo il più possibile: è vero che il salto dai teatri a uno spazio come questo è importante, ma Lenny è talmente il mio batterista in questo momento che non avrei potuto immaginare di non averlo qui, su questo palco, con me».
Las Vegas è il filo conduttore del concerto, sia a livello visivo che immaginifico: da un lato rappresenta due ore di svago, di musica, dall’altro è il centro della corruzione. Quale Las Vegas porta Ligabue sul palco?
«Le porto entrambe. Perché Campovolo, in fondo, è il luogo delle grandi feste. E questa festa che stiamo preparando si ispira, almeno in parte, a quello che abbiamo fatto trent’anni fa: se riguardi il video di Viva!, era ambientato proprio a Las Vegas. Las Vegas, per me, è un’immagine potentissima: racchiude tutto e il suo contrario. E in un momento come questo, così contraddittorio, mi sembrava perfetta per raccontare quello che stiamo vivendo».
Quanto l’intelligenza artificiale ha contribuito a creare il mood visivo dello show?
«È chiaro che, quando hai a disposizione certi strumenti tecnologici, sta a te decidere come e quanto usarli. Noi abbiamo cercato di servircene con misura, per creare visioni che nella realtà non esistono, come la Las Vegas post apocalittica entrata nello spettacolo o come le immagini dei capi del mondo che brindano su una navicella spaziale (durante “Happy Hour” ieri sera gli schermi hanno mostrato una serie di personaggi, da Putin a Trump passando per Netanyahu e Orbàn, brindare tra loro, ndr). Se la tecnologia viene usata con intelligenza, può davvero arricchire i messaggi che vuoi trasmettere. Penso, ad esempio, al visual di “Cosa vuoi che sia”, che domani assumerà un significato ancora più forte: durante il brano scorreranno dati sul riscaldamento globale, un tema che i grandi della Terra continuano a spingere “sotto il tappeto” in nome della finanza, dell’economia, del Pil. Ma è un tema che non possiamo più permetterci di ignorare».
Luciano, lei cosa chiede ai potenti del mondo?
«L’unica cosa che posso dire con certezza è che io, a un certo punto, ho avuto un sogno che sembrava davvero a un passo dalla realtà. Un sogno nato durante l’adolescenza, quel periodo in cui inizi a capire chi sei. Ho vissuto la mia giovinezza negli anni ’70, e l’aria che si respirava allora era quella di un cambiamento possibile. Davvero sembrava che il mondo potesse diventare migliore, più giusto, più praticabile. In quegli anni, studenti, operai, intellettuali si muovevano tutti nella stessa direzione. Oggi è l’esatto opposto di quel sogno. Cosa si può fare? Forse ci sarebbe da smontare tutto e ricominciare da capo… ma certamente non può farlo un cantante. Quello che posso fare, però, è continuare a ricordare – ancora una volta – che non possiamo permetterci di ignorare certi temi, come quello del riscaldamento globale (ieri sera durante “Cosa vuoi che sia” nella parte alta del palco sono scorsi alcuni dati, a partire dai 7 milioni di decessi ogni anno per inquinamento atmosferico, ndr). E che non possiamo continuare a vivere sempre nell’attesa di un “verrà”».
Parliamo delle donne iconiche che ha scelto nella carrellata di immagini che accompagnano il brano “Le donne lo sanno” (tra le 41 scelte, anche Cecilia Strada, Ilaria Cucchi, Cecilia Sala, Beve Vio e Paola Egonu). Sono i suoi volti di speranza?
«Sì, credo che una speranza, oggi, debba passare necessariamente attraverso il genere femminile».
Ha cominciato a lavorare a nuovi brani?
«Dovete immaginarmi come uno che non smette mai di scrivere. Per me non è solo un impegno verso un ascoltatore ideale, è proprio un piacere personale. Scrivo in continuazione, e in questo momento avrei già materiale per due o tre album. Ma oggi pubblicare è diventato qualcosa di molto diverso: è un altro mondo. Quando decidi di farlo, lo fai con molta più cautela, con più parsimonia.
Quanto di Reggio c’è nella sua arte?
«Per me sono 65 gli anni e sono stati tutti vissuti qua. Quindi un motivo ci sarà, sono legatissimo alle mie radici e credo che, per forza di cose, siano finite nel mio lavoro».
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