L’era del Sushi: storia breve di un inganno
Dal gesto rapido dei chioschi giapponesi ai piatti confusi dell’Occidente moderno
Nelle cronache antiche il sushi profuma di cantina. Era riso che fermentava intorno al pesce come una coperta acre, e chi apriva quel fagotto mesi dopo trovava un boccone aspro, lontano dal mito patinato di oggi. La grande cucina a volte nasce dalla necessità più grezza, e il Giappone rurale non faceva eccezione. La fermentazione serviva a non buttare via il pescato in tempi di scarsità, con il riso sacrificato come involucro e il pesce che diventava alimento più duraturo.
Col passare dei secoli il riso smette di essere scarto e diventa coprotagonista, insaporito con aceto e zucchero per renderlo più gentile. Da lì il salto alla Tokyo ottocentesca, allora Edo, dove il sushi si trasforma in cibo urbano. I chioschi vicino ai mercati servono nigiri modellati in pochi secondi, bocconi rapidi da consumare in piedi. Il taglio fresco del pesce e il riso ancora tiepido finiscono direttamente nelle mani dei clienti, con porzioni grandi quasi il doppio di quelle attuali, pensate per saziare operai, mercanti, teatranti. Era street food in senso pieno, veloce ed economico, lontano dalle sale in penombra che oggi custodiscono i riti dell’omakase.
Il passaggio da conservazione a piacere quotidiano segna l’ingresso del sushi nella cultura giapponese come gesto codificato. Il riso diventa protagonista assoluto, richiede anni di apprendistato per imparare lavaggio, cottura, condimento e raffreddamento. È un alfabeto che sembra semplice e che invece vive di regole non scritte. Quando il sushi attraversa l’oceano e arriva in Occidente, lo fa passando per la California. Nascono roll imbottiti di avocado, cetriolo, granchio in surimi, maionese piccante. È l’adattamento che conquista Hollywood e poi il mondo, e che con gli anni si moltiplica in catene, format e varianti. L’Europa ne recepisce la moda con la stessa leggerezza, e nei supermercati compaiono confezioni pronte da scaffale.
Gli errori dell’Occidente non stanno nell’aver creato versioni nuove, perché ogni cucina che viaggia si adatta, ma nell’aver scambiato la misura per ornamento. Il sushi non è un mosaico colorato da fotografare, è equilibrio fragile tra riso, pesce e mano. In Giappone un apprendista passa anni prima di preparare il primo nigiri, in Occidente si riduce a un assemblaggio frettoloso. Il sushi continua a viaggiare perché porta con sé la tenacia dei contadini che lavoravano le risaie di Niigata e la sapienza dei pescatori che tiravano su tonni a Tsukiji, perché racchiude secoli di geografia compressi in un boccone che dura pochi secondi. Da una parte la cultura che tratta il chicco come fosse un carattere d’alfabeto, dall’altra il fast food che lo riduce a riempitivo. Il nigiri vero rimane un lampo che fa convivere memoria contadina e modernità urbana; un gesto che vale quanto una pennellata di Hokusai, breve e irripetibile, ma capace di restare nella memoria più di molti discorsi.
*Gastroturista
