Gazzetta di Reggio

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L’analisi

Sempre più ragazzi rinunciano all’università per un anno sabbatico: moda o segnale d’allarme?

Roberto Valgimigli*
Sempre più ragazzi rinunciano all’università per un anno sabbatico: moda o segnale d’allarme?

Se per molti è davvero utile, un’occasione di crescita e riflessione, per altri può essere espressione di un disagio meno discusso

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Ripartono le lezioni anche nelle Università, ma una parte degli studenti che nella scorsa estate si è “maturata”, ancora rimarrà a casa: accanto alle scelte tradizionali — iscriversi all’università, cercare lavoro — conquista sempre più terreno l’idea dell’anno sabbatico: ovvero una pausa che dovrebbe servire a riflettere, rigenerarsi, “vedere cosa succede” prima di prendere decisioni definitive. Ma che cosa si nasconde dietro questo fenomeno, quali sono le sue ragioni reali — psicologiche, sociali — e quanto la scelta può essere anche un’espressione di smarrimento, ansia o senso di inadeguatezza? Secondo un’indagine di Skuola.net , su un campione di circa 3.200 studenti delle scuole superiori, il 16% dichiara che valuterà di prendersi una pausa dopo la maturità (qualche mese o un anno). Nel 2021 quelle intenzioni erano all’11%, salite al 13% e al 16% nei tre anni successivi, per poi arrivare nel 2024 ad una percentuale di quasi il 18% tra i giovani dai 18 ai 30 anni: quasi 2 su 10. In realtà il termine Anno Sabbatico deriva dall’ebraico “sabba” che significa “riposo”. Nell'antica tradizione ebraica, il settimo anno era l’anno sabbatico, un periodo in cui la terra doveva riposare e i campi non venivano coltivati, permettendo alla terra di rigenerarsi e agli schiavi di essere liberati. L’espressione è passata nel linguaggio comune per indicare un periodo di pausa dal lavoro o dallo studio, sia per la terra che per le persone, per un periodo di riposo e rigenerazione. I nostri giovani generalmente la interpretano come una pausa o sospensione temporanea dalla rotta “naturale” che la società suggerisce - diploma, università, lavoro - durante la quale le attività che si fanno in questo periodo sono varie: viaggi, esperienze all’estero, volontariato, lavoro part-time o stagionale, corsi di lingue. Ma per lo più è vista come momento per “respirare”, per prendersi cura di sé dopo anni di studio intenso e pressione.

Ma se per molti l’anno sabbatico è davvero utile, un’occasione di crescita e riflessione, per altri può essere espressione di un disagio meno discusso: alcuni, usciti dalle scuole superiori, non hanno le idee chiare su quale facoltà scegliere, su che tipo di lavoro vorrebbero fare, su cosa li motiva davvero. L’orientamento scolastico, spesso, è percepito come insufficiente. I ragazzi parlano di “non sapere cosa fare”, di timore di prendere decisioni “per sbaglio”, di voler evitare di investire anni in qualcosa che poi non darà soddisfazione. La scuola, in molti casi, è vissuta come un percorso pesante: lo stress degli esami, le interrogazioni, la pressione continua. Qualcuno dice di sentirsi mentalmente esausto, con ansia, bisognoso non solo di una pausa fisica ma psicologica. L’anno sabbatico per alcuni serve proprio a “staccare la spina”. Però per qualcuno, dietro la decisione di prendersi un anno sabbatico, può celarsi un senso di inadeguatezza: non sentirsi preparati, credere di non essere “all’altezza” degli standard universitari o professionali, timore di non riuscire a competere, specialmente in contesti dove il lavoro è percepito come precario o il percorso universitario molto impegnativo. Alcuni sociologi parlano di una “paura paralizzante” di scegliere male, che porta ad una paralisi decisionale. Inoltre se si considera che la possibilità stessa di fermarsi richiede un supporto finanziario o sociale che non tutti hanno, si rischia che “l’anno sabbatico” diventi solo un vuoto, un periodo senza direzione reale. A livello psicologico questo periodo secondo Erik Erikson potrebbe trattarsi di “moratoria psicosociale”, ovvero una fase in cui i giovani sospendono decisioni per esplorare alternative. In quest’ottica, l’anno sabbatico sarebbe funzionale: permetterebbe di sperimentare, costruire identità, ridurre il rischio di scelte affrettate. Eppure, diversi studi sottolineano un lato più fragile: secondo ricerche pubblicate su Journal of Youth Studies, i giovani che scelgono l’anno sabbatico senza un progetto chiaro spesso sperimentano più insicurezza e una percezione di “perdita di tempo”. Alcuni studenti vivono il periodo non come un’opportunità, ma come un ritiro difensivo, una risposta a sentimenti di ansia, burnout e scarsa autostima. In Italia, psicologi scolastici notano come la pressione familiare e sociale — “non sprecare tempo”, “non restare indietro” — accentui la sensazione di non essere pronti né al lavoro né all’università. Dunque il rischio vero è che il periodo di pausa si trasformi in una stasi paralizzante, piuttosto che un momento di crescita. Se l’anno sabbatico è ormai entrato nell’immaginario giovanile come una scelta legittima, resta fondamentale accompagnare psicologicamente i ragazzi in questo passaggio. Non si tratta di spingerli a “decidere subito” né, al contrario, di lasciarli soli in una pausa indefinita: ciò che serve è un sostegno che dia senso a quel tempo. E per questo credo che possano aiutare un Orientamento personalizzato, che non si limiti a elencare facoltà o mestieri, ma aiuti a esplorare interessi, attitudini, valori; degli Spazi di ascolto psicologico, a scuola e in famiglia, per dare voce a paure e dubbi senza giudizio ed Esperienze guidate (tirocini, volontariato, viaggi formativi) che trasformino l’incertezza in esplorazione concreta. In fondo, ciò che i giovani chiedono non è tanto “più tempo”, ma più possibilità di capire chi sono e cosa desiderano diventare.
*Psicologo e psico-terapeuta