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«Io come Saman ma ce l’ho fatta. Racconto la mia storia perché non riaccada», l'intervista a Bibi Khudeja

Elisa Pederzoli
«Io come Saman ma ce l’ho fatta. Racconto la mia storia perché non riaccada», l'intervista a Bibi Khudeja

La donna di origine pakistana, cresciuta a Reggio Emilia, nel 2011 riuscì a scappare incinta da un matrimonio forzato. La sua storia di autodeterminazione in un libro: «L’ho fatto per mia figlia»

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«Dopo il caso di Saman mi sono sentita ancora più in dovere di rendere pubblica la mia esperienza: per prevenire. Non cambierò il mondo, quello che è accaduto a lei e a tante altre non si può cancellare, ma voglio dare la mia testimonianza: io mi sento di avercela fatta». Bibi Khudeja ha occhi neri profondissimi e una consapevolezza che viene da lontano. Forse, già da quando a 4 anni è partita dal Pakistan con le sorelle e la madre per raggiungere l’Italia e Reggio Emilia dove il padre lavorava da tempo. In quel momento lasciava chi era - e chi sarebbe dovuta diventare, secondo il mondo dal quale proveniva - e iniziava ad affermare chi sarebbe stata: una donna libera. Ma per arrivarci ha dovuto affrontare tante battaglie: la fuga incinta da un matrimonio forzato; poi, anni dopo, anche quella da un amore - quello sì scelto e desiderato - ma che si era trasformato in possesso e prevaricazione. Oggi Bibi Khudeja ha 34 anni, due figli che ama tantissimo e una storia di coraggio e autodeterminazione da raccontare: lo ha fatto con un libro scritto con Grazia Satta Ladu da leggere tutto d’un fiato, "Lupo solitario" edito da Cronache Ribelli.

Quando sei partita dal Pakistan eri un bambina, cosa ricordi di quel momento?

«Il grande entusiasmo. Scriverlo mi ha aiutato a ripercorrere le emozioni. Ricordo noi che andavamo in Europa, il grande mito di chi emigra. Mi sentivo privilegiata e, all’arrivo, lo stupore di fronte alle piccole cose che mi facevano capire che era tutto un altro mondo: le scale mobili dell’Ariosto, per esempio, mi lasciavano esterrefatta».

Come è stata la tua nuova vita qui?

«Finché sei piccola esegui e ti sembra normale che a casa si viva in un modo e fuori in un altro. La sofferenza più intensa arriva con l’adolescenza, quando inizi a chiederti chi sei. Vivevo due mondi: uno chiuso, quello in casa, con le frequentazioni solo con gli amici dei miei genitori, dove tutto seguiva la stessa direzione, con attività e tradizioni ben definite; l’altro era quello della scuola, dove vivevo e mi confrontavo con le amiche. Sentivo che una di quelle due vite mi stava stretta».

A differenza di quanto è successo a Saman, tuo padre ha fatto studiare te e le tue sorelle.

«Paradossalmente, ha sempre sostenuto la nostra indipendenza. Le sue prime tre figlie sono femmine, diceva: "Saranno i figli maschi che non ho avuto". È stato anche additato dalla comunità, oggetto di pregiudizio perché ci lasciava andare a scuola. Gli sarò sempre grata per questo, anche per avermi fatto stare due anni in Pakistan da mia nonna: ho imparato a leggere e scrivere urdu. Andare a scuola mi ha aperto tanti canali. Ma anche per un uomo come mio padre la paura di perdere l’onore è più forte di quella di perdere una figlia».

Dopo il diploma ti dicono che dovete partire per un viaggio in Pakistan: lì tutto cambia.

«La mia amica e la mia prof di Latino mi mettevano in guardia. Temevano che volessero portarmi là per farmi sposare. Ne ho parlato con mio padre: non è una cosa scontata parlare in maniera così diretta tra padre e figlia. Ma lui mi ha giurato sul Corano che non andavamo per quello, ma solo per vedere la nonna, a cui ero molto legata. Gli ho creduto: sono i tuoi genitori, vuoi bene loro anche se non condividi tante cose».

Invece cosa è successo?

«Quando sono arrivata là mi hanno tolto i documenti. E mia madre ha detto a me e mia sorella che eravamo lì per sposarci».

Hai avuto la possibilità di decidere?

«Ci ho pensato, ma sapevo che avrei potuto perdere tutto».

Anche la vita?

«Mia madre ha detto: "O così, o lo sai di cosa è capace tuo padre, non ha bisogno di venire qui per farlo". Là ci sono tanti zii, cugini: i maschi della famiglia hanno un ruolo importante... Io, personalmente, credo che il matrimonio combinato sia una cosa, mentre il matrimonio forzato è tutt’altro paio di maniche. Non ho assolutamente alcun giudizio negativo verso le ragazze che accettano: ci sono anche matrimoni combinati che si rivelano duraturi e felici. Si può combinare e proporre, ma deve essere la diretta interessata a decidere. È un passaggio che, per fortuna, nelle grandi città sta già avvenendo. Diverso invece è il matrimonio forzato: te lo impongono e pretendono che accetti. Io non ho avuto scelta».

Quindi vi sposate, nel 2011. Quando decidi che vuoi tornare in Italia?

«Quando ho capito che se fossi rimasta per 12 mesi avrei perso il permesso di soggiorno. Mio padre diceva che ci avrebbe pensato lui a farci tornare in Italia insieme, ma non era quello che voleva davvero. Così ho fatto leva sul sogno di mio marito di venire in Europa, mi sono messa in contatto con la mia prof e le mie amiche e tramite loro con l’allora sindaco di Novellara, Raul Davoli, che ringrazierò per sempre. Abbiamo fatto tutto di nascosto dalle famiglie, nessuno sospettava le mie intenzioni, neanche mio marito. Ci sono voluti 11 mesi per ottenere un visto turistico, ma alla fine siamo arrivati in Italia».

Qui hai avuto una esitazione: eri pronta ad accettare di vivere quel matrimonio, ma a un certo punto qualcosa è scattato.

«Quando siamo arrivati mio marito mi faceva pena: non sapeva niente, vedevo anche lui come vittima di una mentalità e di usanze tribali. Mi sentivo in colpa nei suoi confronti, in quelli dei miei genitori. Mi sono detta: devo restare con lui. Poi, però, faccio l’ecografia e scopriamo che aspetto una femmina. Mio marito ha iniziato a dire che dovevo partorire in Pakistan, che dovevo rimanere là: esattamente il contrario di quello che volevo. E poi, il fatto che fosse femmina per tutti era una colpa. Io invece era proprio una bambina che desideravo. Anche nella vita quotidiana era impossibile: voleva che usassi il burka. Ho capito che non sarebbe mai cambiato niente, che dovevo rompere questa catena, che dovevo farlo per mia figlia».

Quanto è stato difficile decidere?

«Avevo tantissima paura: voleva dire dare un taglio netto con tutta la mia vita. Ma la libertà di fare una passeggiata, di andare a mangiarmi un gelato, ma soprattutto di scegliere, sapevo che non me l’avrebbe mai data, né a me né a mia figlia».

Decidi, lo comunichi a Davoli e pianificate la fuga grazie anche a Tiziana Dal Pra allora presidente di Trama di Terre.

«Mia sorella mi accompagna a quella che doveva essere un visita, invece una volta da sola mi portano via. Posso mandarle solo un ultimo messaggio e poi spegnere. C’era scritto: "Non torno più, mi dispiace". Sono stati giorni bruttissimi, piangevo sempre».

La tua famiglia come ha reagito?

«A un certo punto mi hanno trovato. Un giorno, nella comunità dove vivevo, ha suonato alla porta mia madre: non abbiamo aperto. Poi, mio marito: hanno chiamato la polizia. C’è stato un processo, e so che quello ha fatto arrabbiare tantissimo mio padre. Poi, il caso è andato in prescrizione e loro non mi hanno più cercato. Con mia sorella ci siamo riavvicinate quando ero a Londra, anni dopo, quando mi sono risposata e ho avuto un altro figlio».

L’altra difficile battaglia che hai dovuto affrontare: chiudere un matrimonio con un ragazzo afgano conosciuto a Reggio Emilia, e che tanto amavi. Una relazione che si è rivelata purtroppo ben altro.

«Mi vergognavo tantissimo, pensavo di non poter affrontare un altro fallimento: dicevo questo è il mio destino, me lo devo tenere. Invece mia sorella mi ha spronato, grazie a lei sono riuscita a tornare a Reggio Emilia con i miei figli, ma di quello che era successo prima non abbiamo mai parlato. Poi ora i rapporti sono nuovamente chiusi».

Oggi come sono i rapporti con la tua famiglia di origine?

«Con mio padre non ci parliamo da 14 anni, non ci siamo mai più visti. Mia sorella ha provato a riavvicinarci, gli hanno detto che ho avuto due bambini, ma lui risponde: "Chi la nomina può uscire da questa casa". Non credo che lo facesse perché non mi amasse o non mi pensasse. Dentro di sé, penso che abbia sempre saputo che sarebbe finita così: da quel giuramento tradito sul Corano non mi ha mai più guardato negli occhi. Con mia madre ci siamo riavvicinate per i bambini, ma proprio per questo lui ha rotto i rapporti anche con lei e ora la famiglia è disgregata».

C’è un messaggio che vuoi lanciare?

«Credo sia il momento di alzare l’attenzione, su più fronti. Tutti i cittadini hanno una responsabilità comune, quella di accorgersi, di non voltarsi dall’altra parte e di segnalare. Serve sempre più formazione, soprattutto per chi lavora nel settore dei servizi sociali. Dopo il caso Saman, molto è stato fatto, ma mancano ancora tasselli importanti. E poi, un pensiero alle donne, alle ragazze pakistane che stanno vivendo ciò che ho vissuto io: chiedere aiuto è possibile e può essere l’inizio di un cambiamento». l© RIPRODUZIONE RISERVATA