Tre ore di viaggio al giorno per insegnare in Appennino: «Ma per lo Stato, il nostro sacrificio vale zero»
Giuseppe Iannella è professore dell’Istituto Cattaneo di Castelnovo Monti: «Chiediamo incentivi economici, agevolazioni sui trasporti e punteggi per chi lavora in aree montane. Riconoscere il nostro impegno significa difendere l’Italia dei paesi e delle valli»
Reggio Emilia Sveglia alle 5, autobus da Reggio alle 6.30 e poi la salita verso Castelnovo Monti, tra curve e nebbia. Non è un romanzo di Calvino, ma la routine di molti docenti che ogni giorno raggiungono le scuole di montagna per entrare in aula in tempo. Una vita di partenze all’alba, viaggi interminabili e stipendi che non ripagano il sacrificio. Sono i docenti delle “terre alte”, che tengono viva la scuola dove tutto sembra più fragile. Tra loro un professore dell’Istituto Cattaneo di Castelnovo, Giuseppe Iannella, 44 anni, che ogni mattina parte da vicino a Reggio. Una passione non scalfita nemmeno dal contratto che lo Stato gli ha offerto quest’anno, un part time. Del mini incentivo del Governo – 2.500 euro di sconto fiscale per l’affitto in montagna – a “favore” di chi insegna nelle terre alte, una «presa in giro», ha tuonato Cisl Scuola.
Professore, cosa ne pensa?
«Chi insegna in montagna lo fa per responsabilità verso studenti e territorio. Senza sostegni concreti, stabilità e continuità sono a rischio. Investire su chi lavora nelle aree interne significa investire nella scuola pubblica e nella coesione sociale».
Lo Stato investe su voi?
«No, non abbiamo punteggi aggiuntivi. È come se il disagio non esistesse, nonostante rischi, carburante, pasti fuori casa e a volte pernottamenti».
Quanto viaggia?
«Vivo vicino a Reggio Emilia e prendo l’autobus per Castelnovo: circa tre ore al giorno di viaggio. Le strade sono tortuose e d’inverno ghiaccio e neve sono un rischio costante. A volte si parte e si rientra col buio».
Ci sono rischi reali?
«Sì. Per citarne alcuni l’anno scorso un collega ha avuto un incidente: un daino gli ha distrutto la macchina, un altro è uscito di strada per il ghiaccio. L’inverno scorso il nostro pullman ha iniziato a scivolare sulla neve all’ingresso di Castelnovo. È andata bene, ma non sempre si è fortunati».
Che effetti ha sulla scuola?
«Il turnover. Molti chiedono il trasferimento appena possono: la stanchezza e la distanza pesano. Gli studenti cambiano insegnanti di continuo e i progetti faticano a consolidarsi».
Chiede privilegi?
«No, solo giustizia: incentivi economici, agevolazioni sui trasporti e punteggi per chi lavora in aree montane. In molti Paesi europei esiste già; qui è lasciato alla buona volontà».
Cosa significa per lei?
«Il mio sacrificio vale zero. Dopo anni di supplenze e chilometri, veniamo superati da chi può permettersi corsi abilitanti da 3.000 euro, spesso in presenza e inaccessibili per chi insegna in montagna. Così si scalano le graduatorie anche senza aver mai insegnato, e il “merito” finisce per premiare chi può comprarlo. Il ministero dell’istruzione dovrebbe guardare anche a noi: il vero merito non è un bollettino universitario, ma la dedizione e il servizio quotidiano agli studenti».
Cos’è la scuola in montagna?
«Tiene viva una comunità. Se si spegne quella, si spegne il territorio. Riconoscere il nostro impegno significa difendere l’Italia dei paesi e delle valli. E invece vige questo slogan: docenti di montagna, il gusto non ci guadagna! E anche nella scuola italiana, purtroppo, il sapore della giustizia e del merito sembrano un lusso per fortunati e per chi può comprarli».
Un incentivo utile?
«Un’indennità di sede disagiata, rimborsi chilometrici e un bonus di permanenza con punteggio».
Cosa direbbe ai suoi studenti?
«La loro scuola conta. Restare e studiare è un atto di cura anche verso la comunità. Nonostante i disagi la vita vera, quella bella, non è quella degli influencer: ha senso impegnarsi per la giustizia compreso quella distributiva.. Non si lavora solo per soldi, ma per dare senso a ciò che si fa. E perciò non resterete soli». l © RIPRODUZIONE RISERVATA