Gazzetta di Reggio

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L’intervista

«Sempre più soli e davanti allo schermo: il rischio per i nostri ragazzi è la perdita di abilità sociali. Ecco cosa possono fare i genitori»

«Sempre più soli e davanti allo schermo: il rischio per i nostri ragazzi è la perdita di abilità sociali. Ecco cosa possono fare i genitori»

Loris Vezzali, professore ordinario di Psicologia sociale a Unimore ne parlerà giovedì sera a Scandiano

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Scandiano Bullismo, isolamento e identità smarrite. Sono i temi al centro dell’incontro inaugurale della rassegna “La Parola agli Scienziati”, dedicata agli adolescenti, in programma giovedì 30 ottobre alle 21 nella sala Bruno Casini di via Diaz a Scandiano. Interverranno Loris Vezzali, professore ordinario di Psicologia sociale a Unimore, Elisa Bisagno, ricercatrice di Psicologia dello sviluppo nello stesso ateneo e Lino Rossi, professore di Psicopatologia dello Sviluppo all’Iusve.

Professor Vezzali, bullismo e “baby gang”. Fenomeno in crescita o distorsione mediatica?
«C’è una sovraesposizione mediatica, perché questi episodi fanno notizia. Ma non per questo vanno sottovalutati: sono il sintomo di un disagio più profondo».
Si dice, talvolta, che sono cose sempre accadute.
«Rispetto a trent’anni fa, la differenza è che quei gruppi di ragazzi problematici, un tempo considerati “balordi”, oggi sono spesso visti come modelli. Il fenomeno dell’emulazione è forte e riflette un malessere».
Spesso si usano in modo indistinto i termini “baby gang” e “bullismo”.
«Sono concetti diversi. Il termine “baby gang” viene usato in senso ampio per indicare gruppi di giovani che commettono comportamenti devianti, ma in origine si riferisce a gruppi strutturati. Il bullismo invece è un comportamento ripetuto nel tempo, rivolto contro una persona, spesso con l’obiettivo di escluderla o farla stare male. Oggi si manifesta molto anche online. Le nostre ricerche mostrano che oltre due terzi dei ragazzi hanno assistito ad episodi di bullismo e più di un terzo ne è stato vittima».
Quanto incidono i social network?
«I social amplificano tutto. I ragazzi vivono sotto una valutazione continua da parte dei coetanei: ogni foto, ogni messaggio può diventare oggetto di giudizio. Questo genera ansia e insicurezza. Dopo la pandemia, abbiamo visto crescere molto la solitudine e i casi di ritiro sociale. Molti adolescenti si chiudono in casa, passano le giornate davanti a uno schermo. È un fenomeno preoccupante, perché il rischio è la perdita delle abilità sociali».

Da cosa nasce?
«Le cause sono molte: familiari, personali, di gruppo. Ci sono ragazzi con difficoltà relazionali o che subiscono norme di esclusione all’interno delle classi. Il problema è che il ritiro si autoalimenta: più ti isoli, più perdi sicurezza e capacità di interazione. E questo accade sempre più spesso, soprattutto tra le ragazze».
Il ruolo dei genitori?
«È importante osservare come i figli usano i social e incoraggiarli a uscire, a fare attività sportive o ricreative. Ma la questione non riguarda solo le famiglie. Serve un impegno delle istituzioni – scuole, enti locali, società sportive – per creare contesti di aggregazione»,
Lei cita spesso lo sport.
«Con il nostro gruppo lavoriamo da anni su progetti di coesione attraverso lo sport. Collaboriamo con la Reggiana Calcio per promuovere inclusione e rispetto. La società granata è molto impegnata sul versante sociale e collabora con la nostra università da tempo: è un modello a livello nazionale. L’attività sportiva è uno dei modi più efficaci per sviluppare abilità sociali, senso di appartenenza e autostima».
Negli ultimi anni si parla di una maggiore fragilità emotiva tra i ragazzi.
«Una fragilità c’è, ed è legata proprio alla mancanza di relazioni autentiche. Quando vengono meno sicurezza e autostima, si può reagire con devianza o con chiusura. Ma io vedo anche un’altra faccia: quando i ragazzi vengono ascoltati, rispondono con entusiasmo. Il bisogno di ascolto è forte».
La devianza dei ragazzi di seconda generazione è un fenomeno evidente.
«Molti di loro faticano a sentirsi riconosciuti: cercano un’identità e spesso non trovano spazi dove esprimere i propri problemi. A questo si aggiungono, in diversi casi, difficoltà economiche e familiari che rendono più complesso il percorso di integrazione. Questi fattori possono alimentare rabbia o senso di esclusione. Il compito delle scuole e delle istituzioni dovrebbe essere quello di offrire occasioni di ascolto e di partecipazione, perché sentirsi parte di una comunità riduce il rischio di disagio». l