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Jeffrey, Roberto, Nour e gli altri costretti a code infinite davanti all’Ufficio Immigrazione

Alice Tintorri
Jeffrey, Roberto, Nour e gli altri costretti a code infinite davanti all’Ufficio Immigrazione

Chi è in fila davanti alla questura vive un’odissea fatta di burocrazia e di silenzi. E così viale Piave continua a trasformarsi nel campo di un gioco crudele

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Reggio Emilia Sembra una partita al gioco dell’oca, per nulla divertente, quella che ogni martedì e giovedì pomeriggio si disputa davanti alla questura di Reggio. Una casella avanti, due indietro. Tiri i dadi, esce il numero più alto: riesci a varcare la soglia dell’Ufficio Immigrazione, ma manca un documento, un solo documento che conta più del plico di fogli che hai raccolto meticolosamente nel tempo e che ora stringi tra le mani. Riquadro sbagliato. Torni al punto di partenza, dietro a tutti gli altri. Viale Piave è il tabellone di un match surreale in cui la posta in gioco è il futuro. In fila, esseri umani diversi, ugualmente aggrappati ai propri diritti: chi avvolge la mano attorno a quelle piccole dei figli, chi accompagna un genitore anziano, chi, sugli abiti indossati al lavoro porta ancora la polvere che nella fretta di arrivare non ha fatto in tempo a scrollarsi di dosso. Sono tantissimi: centinaia. Le integrazioni documentali, imprescindibili per ottenere un permesso di soggiorno in Italia, del resto, alla questura di Reggio si svolgono, c’è scritto sul sito della questura, “esclusivamente il martedì e il giovedì dalle 14.30 alle 16.30”. Senza, il proprio status è quello dell’irregolare, bersaglio di crociate d’odio tanto reali quanto cieche: niente lavoro, niente diritti e il rischio impellente di essere espulsi dal Paese che si sta imparando a chiamare casa o dove da tempo si sono poste le fondamenta del proprio domani. Diventa semplice e umano, quindi, capire il senso delle file infinite che si allungano dall’ingresso dell’Ufficio Immigrazione fino al parcheggio di viale Piave: dare un taglio netto al fragile filo a cui si è appesi, garantire serenità ai propri figli, porre fine alla precarietà che pesa sulle spalle già ricurve di chi è anziano. Così, che sia sull’asfalto rovente in mezzo all’afa di agosto o su quello bagnato dalla pioggia d’ottobre, con la nebbia padana e con gli acquazzoni estivi, loro sono lì. Se possono permetterselo, dalle prime ore del mattino, per guadagnarsi una buona posizione e garantirsi l’accesso all’Ufficio, aperto per loro solo quattro ore a settimana, altrimenti quando riescono, certi che il numero delle ore trascorse in coda a fine giornata supererà le certezze con cui rincaseranno. Nella fila disordinata del martedì e del giovedì pomeriggio incontriamo Jeffrey, Roberto, Sofia, Ibrahim. Parliamo con Nour, che di anni ne ha otto e con l’italiano imparato a scuola fa da mediatrice per noi con la mamma e la nonna, anche loro in attesa di ricevere informazioni all’Ufficio Immigrazione che, nonostante la lunga attesa, sembra più lontano a ogni rintocco. Sono soltanto cinque volti, cinque voci di un coro che conta decine e decine di persone diverse, ma uguali nel bisogno, nella consapevolezza e nel senso di responsabilità che motiva la tolleranza di quelle attese infinite davanti alla questura. Per chi chi si trova in fila, da ore e senza un riparo dalla pioggia e dal sole nonostante gli impegni, l’età e gli imprevisti, la sopportazione è la sola scelta: non esistono strade alternative, corsie preferenziali, modalità più lievi e razionali per un servizio fondamentale quanto inefficiente. Sono le 15.30 e Jeffrey, arrivato a mezzogiorno, è ancora nella seconda metà della coda che lo separa dall’ingresso dell’Ufficio Immigrazione. «Qui è sempre così – ripete – credo di avere con me tutti i documenti che servono, ma non è mai una certezza...». Quella dei documenti è una casella del giro dell’oca su cui tutti, almeno una volta, sono caduti. Può sembrare un errore banale, una disattenzione evitabile, eppure, ce lo spiegano loro, non lo è affatto. «Quando chiami per chiedere informazioni e presentarti preparato, le risposte, quando arrivano, arrivano da persone diverse da quelle che incontrerai poi. L’ufficio che risponde alle telefonate liquida con un generico “porta tutto quello che hai”. Cosa significa? Non sanno esattamente quali fogli, quali firme, quali timbri e quali documenti ufficiali serviranno. Sanno che sono tanti, ma non sanno quali. Non lo sanno loro e non lo sappiamo nemmeno noi. L’invito è sempre lo stesso: “Recatevi all’Ufficio Immigrazione e no, non è possibile prenotare”». E così, con un raccoglitore colmo di parole sottobraccio, si tenta la sorte. La fortuna aiuta gli audaci, dicono. Eppure, spesso, dopo sei ore trascorse in fila, la pratica viene rimandata perché soltanto dopo che finalmente si sono seduti viene comunicato loro che una di quelle carte, drammaticamente, manca. In fretta, si torna così al punto di partenza, pronti a tirare i dadi un’altra volta. Ma davvero, nel 2025, nell’era del progresso tecnologico, non è possibile consegnare virtualmente tutti quei documenti, come per qualsiasi altro ufficio? Ancora, le risposte arrivano da chi questo sistema folle ha imparato a conoscerlo diventandone vittima. «Certo, si può mandare una pec: l’idea, ovviamente, è venuta a tanti. Direi che ci abbiamo provato quasi tutti. Il problema, come si può immaginare, sta nelle tempistiche». Si, perché, se a molti un riscontro non è mai arrivato, a tanti altri è giunto a distanza di mesi, quando ormai, se non fossero corsi ai ripari rassegnandosi alla fila davanti alla questura, il loro permesso di soggiorno sarebbe scaduto, facendoli cadere ingiustamente sulla casella più temuta, quella dell’irregolarità. E così viale Piave continua a trasformarsi nel campo di un gioco crudele: in quelle attese che non conoscono stagioni né scorciatoie, c’è tutto il paradosso di un Paese che chiede integrazione, ma è incapace di accogliere.

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