Dalle nonne di Casina e Carpineti a Executive Chef a Pechino: Alessandro Fontanesi porta la cucina reggiana in Cina e fa il “tutto esaurito” con i suoi cappelletti
Reggio Emilia, il 41enne lavora in un hotel a cinque stelle, The Peninsula Beijing, e guida un progetto speciale: un pop-up restaurant chiamato “Vieni a casa”
Da Giandeto di Casina e Carpineti, dove è cresciuto, a Pechino, con la missione di portare la cucina reggiana in Cina. Alessandro Fontanesi, 41 anni a dicembre, più della metà dei quali passati ai fornelli in giro per il mondo, oggi è Executive Chef di un hotel a cinque stelle, The Peninsula Beijing. In questi anni ha lavorato in dodici Paesi e cucinato per capi di Stato, reali e attori di fama mondiale. Da settembre a novembre guida un progetto speciale: un ristorante temporaneo (o pop-up restaurant) dedicato alla cucina reggiana, chiamato “Vieni a casa”, omaggio affettuoso alle sue amate nonne. «Me lo dicevano sempre quando dall’estero telefonavo per salutarle».
Chef Fontanesi, partiamo dalle origini: come si è avvicinato alla cucina?
«Sono cresciuto tra due nonne "rasdore": la nonna Domenica a Giandeto e la nonna Mara a Carpineti. Da bambino passavo la settimana con una e il fine settimana con l’altra. La cucina è sempre stata il centro della casa. A 14 anni mi sono iscritto all’alberghiero di Serramazzoni e mia madre mi ha mandato subito a lavorare nei weekend, prima ai Canali, poi alla Riserva del Re a Casina. Da lì è cominciato tutto».
Qual è stato il suo percorso dopo l’alberghiero?
«La mia prima stagione è stata in Svizzera, a St. Moritz. Poi ho lavorato in Francia, Inghilterra, Portogallo, Grecia, Mauritius, Maldive, Qatar, Vietnam e Tunisia, fino ad arrivare in Cina. Ho aperto alberghi e ristoranti per grandi catene internazionali come Four Seasons e oggi dirigo le cucine del Peninsula Hotel di Pechino, dove coordino 87 cuochi».
In questi anni ha incontrato anche molti personaggi noti.
«Sì, parecchi. Durante gli anni a Doha ho cucinato per Tony Blair, Nicolas Sarkozy, Angela Merkel, François Hollande e persino per l’attuale re Carlo d’Inghilterra. A Tunisi, nei vertici africani, passavano da me quasi tutti i presidenti dei Paesi del continente».
Immagino la pressione…
«A certi livelli non puoi sbagliare: se un piatto arriva freddo, il cliente può essere un capo di Stato. E comunque tutti i clienti di questi ristoranti sono esigenti».
Un mestiere che richiede grande impegno.
«Sì, è un lavoro duro. Si lavora 10-12 ore al giorno, e gli standard nel lusso sono altissimi. Ora passo più tempo a gestire e formare i miei ragazzi che ai fornelli, ma continuo a cucinare per alcune preparazioni. Ho scelto una via più manageriale perché, dopo tanti anni di cucina stellata, serviva equilibrio. A quarant’anni non voglio finire con il mal di schiena».
C’è anche una vita familiare da tenere insieme.
«Sono sposato con una donna delle Mauritius, che ho conosciuto quando lavoravo alle Maldive. Abbiamo un figlio di cinque anni: l’ho chiamato Emiliano, proprio per ricordare le mie radici».
Parliamo del progetto "Vieni a casa". Come nasce l’idea?
«Volevamo rendere l’hotel più accessibile a un pubblico giovane, superando l’idea che per entrare in un cinque stelle servano 200 euro. Ho proposto un pop-up dedicato alla cucina reggiana, quella di casa mia. La direzione ha accettato e abbiamo allestito 20 tavoli verdi e bianchi nella hall dell’albergo, accanto ai negozi di Chanel e Louis Vuitton. È una scena curiosa, ma funziona: da metà settembre a metà novembre abbiamo il tutto esaurito ogni sera».
Che cosa propone il menù?
«Cappelletti in brodo, lasagne verdi, arrosto di maiale al latte, uccellini, barzigole, scarpazzone, coniglio con la polenta, salsiccia fatta in casa, gnocchi di patate con crema di Parmigiano e tortelli verdi».
Da bere?
«Ho inventato un cocktail speciale, il Negroni della via Emilia. È un negroni con Lambrusco Campanone di Novellara al posto del Campari e tre fettine di salame di Felino al posto della buccia d’arancia. I clienti cinesi ne vanno matti. A loro spiego che il Lambrusco è l’ideale con i nostri piatti perché sgrassa il palato».
A proposito dei nostri prodotti. Immagino che lei abbia sempre usato il Parmigiano-Reggiano, giusto?
«Assolutamente. Quando lavoravo a Tunisi, il direttore delle finanze voleva sostituirlo con un altro formaggio per risparmiare 25mila euro l’anno. Gli ho detto: "Finché ci sono io, si usa solo Parmigiano-Reggiano". Anche mio padre me lo insegnò: nel primo menù che feci, da ragazzo, avevo scritto "carpaccio con grana". Quando lo lesse, mi disse: "Ma come, tu sei di Reggio e usi il grana?". Da allora, mai più. Parmigiano per sempre».
In fatto di cucina noi italiani siamo un po’ nazionalisti. Abbiamo ragione o siamo presuntuosi?
«La cucina italiana è unica. Noi cuochi italiani sappiamo distinguere tra ciò che è buono e ciò che è eccellente. Gli altri, spesso, si fermano a ciò che è "bello". Il nostro palato è cresciuto in famiglia, con le nonne, con la memoria dei sapori. Abbiamo una biblioteca di gusti in testa che ci accompagna sempre. È questo che fa la differenza tra una cucina buona e una cucina italiana».
In Italia c’è una bella competizione regionale. Come colloca la cucina emiliana nel panorama nazionale?
«È impegnativa, perché non si può improvvisare. I piatti reggiani vanno fatti a mano: i tortelli, i cappelletti, gli gnocchi. Non si possono comprare già pronti, e per questo tanti chef la evitano. Però tra i cuochi italiani, quando dico che sono di Reggio Emilia, mi rispondono: "Allora sai cucinare davvero". È una cucina di base, solida, fatta di tempo e di mani».
Da quello che mi dice capisco che a casa sua il giudizio è molto severo.
«Sì, è così. Posso aver cucinato per re e presidenti, ma quando torno e preparo il risotto ai funghi mia madre mi dice: "Secondo me ci hai messo poco burro..."».
Nessuno è profeta in patria…
«Pare di sì...». l© RIPRODUZIONE RISERVATA