Ameya Gabriella Canovi: «Gli uomini insegnino agli uomini a non essere violenti con le donne»
La psicologa sarà mercoledì alla Casa della Cultura di Casina: «Va insegnato a rispettare il consenso. Scrivere 500 messaggi al giorno per sapere dove è controllo, non è amore»
Reggio Emilia «Non usiamo più l’aggettivo “tossico”: banalizza un concetto molto più complesso. Quando ci si trova in una relazione dove la libertà viene limitata, anche di fronte al più piccolo dubbio, è importante chiedere aiuto a più persone possibile. Se limita la mia libertà non è amore da parte sua, è insicurezza». La dottoressa Ameya Gabriella Canovi è psicologa e PhD, da tempo analizza le relazioni in tutte le sfaccettature, collaborando anche con la Rai ad Amore criminale e Sopravvissute, ed è autrice di libri, di cui uno in arrivo a febbraio, mentre l’ultimo, pubblicato lo scorso anno, si intitola “Dentro di me c’è un posto bellissimo”, (Vallardi). Ameya Gabriella Canovi sarà protagonista di un incontro, mercoledì, alle 20.30, alla Casa della cultura di Casina.
Non passa giorno in cui non si assista alla notizia di un femminicidio, purtroppo. Cos’è cambiato a livello sociale e culturale rispetto al passato? Perché assistiamo a questo fenomeno così massiccio?
«Ciò che è cambiato è che la donna non è più così sottomessa e si autorizza ad andarsene dalle relazioni. Se dobbiamo fare un parallelo con il passato, ad essere diversa è l’emancipazione della donna. Mentre quanto, purtroppo, non è cambiato è ciò che possiamo definire sotto l’ombrello del cosiddetto patriarcato. Non vorrei diventasse una parola inflazionata, come “tossico”, perché è banalizzante e sulla bocca di tutti e si spoglia della sua gravità. Sotto l’ombrello del patriarcato troviamo comportamenti, atteggiamenti e ideologie che sostengono la superiorità maschile sulla donna, l’egemonia e quindi il diritto di sopprimere la donna qualora si ribellasse e si opponesse alla volontà maschile. Sarebbe urgente una rieducazione al maschile dei ruoli, della libertà, del diritto di dire di sì o di no. Il problema è emotivo, oltre che politico e sociale perché gli uomini non sanno gestire le proprie emozioni».
Si parla tanto di quanto possano fare le donne, rispetto alla violenza di genere, ma ci si sofferma ancora poco su come agire sull’uomo.
«Qualcosa la nostra Regione lo fa, ad esempio con lo sportello degli uomini maltrattanti. Sto scrivendo un quarto libro che uscirà a febbraio. Tutti gli uomini hanno una grande responsabilità: il femminicida ha parenti, amici, e altri uomini intorno. Ha occhi che osservano e ogni uomo ha il grande potere di dire “no” a chi manifesta certe incontinenze emotive. Non siamo noi donne che dobbiamo insegnare ai maschi a non picchiare, non usurpare, non ferire... Sono gli uomini stessi a doverlo fare. Sono rarissime le manifestazioni di piazza che vedono scendere in campo uomini che vanno a manifestare contro questi fenomeni. Ce n’è stata una a Genova oltre un mese fa, ma non ha fatto rumore. L’uomo spesso ne esce dicendo: “Non tutti gli uomini sono così”. Invece, gli uomini hanno in comune il fatto di essere uomini e devono denunciare e cercare di correggere i comportamenti errati. Il tema coinvolge la società tutta, le agenzie educative e le azioni politiche».
Ancora troppo spesso, nella quotidianità, arroganza e prevaricazione sono scambiati come un modo vincente di imporsi nella società...
«E questo si manifesta anche nei giovanissimi ed è gravissimo. C’è un film di Edoardo di Leo, “Mia”, produzione Rai visibile anche Netflix e Raiplay. È la storia di una ragazzina che si mette con un ventenne che la chiude in casa e le ordina, ad esempio, di non truccarsi. Poi la filma durante atti sessuali e quando lei si toglie dalla relazione, lui diffonde i video in cui lei appare nuda. Mia non regge il revenge porn e si butta giù dalla finestra. Da quel momento il padre cerca di farsi giustizia da solo. Si tratta di una pellicola che descrive bene lo smarrimento genitoriale sociale di fronte a una tragedia simile provocata da un individuo che, per frustrazione e narcisismo, si impone in una relazione come un padrone e una ragazzina di 15 anni spesso fatica a uscirne. Spesso, il bisogno di appartenere porta la ragazza ad assoggettarsi, sottomettersi e ad accettare comportamenti limitanti della libertà».
Cosa può fare ciascuno di noi?
«Occorre avviare una seria riflessione che coinvolga i giovanissimi, fin dalle elementari, sul concetto di dignità, di confini. Se dico no è no. Va insegnato a rispettare il consenso, cosa significa amore o usare una persona per dimostrare il proprio potere. Bisogna iniziare molto presto a riflettere e non a dire è normale. Va cambiata la cultura distinguendo cosa è bene e cosa è maligno».
Quali sono alcuni campanelli d’allarme che possono fare capire la necessità di aiuto?
«Quando iniziano a limitarci la libertà, quando l’altro impone la sua visione su di noi, quando non c’è reciprocità, quando c’è un “devi” da parte di uno dei due, se l’altro detta il ritmo della relazione, quando uno comanda e l’altra viene comandata. Una relazione non è controllo. Scrivere 500 messaggi al giorno per sapere dove e con chi sei non è interesse. È controllo. Che non è amore. È paura».
Chi si trova in queste relazioni come può trovare la forza di uscirne?
«Nel dubbio bisogna chiedere a più persone possibile. E c’è sempre il 1522, numero gratuito e anonimo dove ci si rapporta con le volontarie che indirizzano a seconda della necessità».
