Gazzetta di Reggio

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Violenza sulle donne

Sono 280 i Codici rossi a Reggio Emilia: «Serve un approccio culturale diverso»

Serena Arbizzi
Sono 280 i Codici rossi a Reggio Emilia: «Serve un approccio culturale diverso»

Il colonnello dei carabinieri Orlando Hiromi Narducci: «Il fenomeno riguarda in modo trasversale tutte le fasce sociali»

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Reggio Emilia Sono 280 nel corso dell’anno i “codici rossi”, strumento che garantisce intervento immediato in caso di violenza di genere, in città e provincia. In 28 casi è stato necessario ricorrere ai centri antiviolenza, 13 sono gli allontanamenti, 59 i divieti di avvicinamento, 81 le applicazioni di braccialetti elettronici, 27 gli arresti per reati legati alla violenza contro le donne. E poi: 278 le denunce per maltrattamenti, 58 per atti persecutori e 26 per violenza sessuale. Sono i dati forniti dall’Arma dei Carabinieri per la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ne parliamo con il comandante provinciale Orlando Hiromi Narducci.

Colonnello Narducci, sono 280 i “codici” rossi”. Qual è lo scenario attuale?
«I 280 “codici rossi” rappresentano un numero che non rende esattamente l’idea di quanto ci sia dietro. È un fenomeno in crescita, più o meno del 10 per cento annuo costante. È difficile comprendere se questo aumento costante sia dovuto a una maggiore presa di coraggio delle vittime, che divengono consapevoli degli strumenti di tutela che le norme garantiscono, oppure a un’effettiva crescita delle condotte maltrattanti. Il numero delle donne vittime di maltrattamenti e altre condotte che fanno scattare il “codice rosso” è consistente in una provincia come la nostra, non grandissima. Benché questo dato sia inferiore alla media di denunce regionale, si disegna uno scenario in cui è evidente come l’approccio culturale rispetto al rapporto uomo-donna non sia ancora adeguato. Al di là di aspetti di natura normativa che sanzionano pesantemente – e da magistratura e forze dell’ordine è grande lo sforzo profuso per arginare il fenomeno – lo scenario che si presenta è quello di una maggiore capacità delle vittime nel rendersi conto che esistono tutele che danno loro voce».
Fra le vostre iniziative c’è l’illuminazione di arancione, colore simbolo di un futuro libero dalla violenza di genere, delle caserme di Reggio, Guastalla e Castelnovo Monti.
«Si tratta di un’iniziativa dall’impatto immediato, con cui l’Arma reggiana testimonia la propria partecipazione alla campagna internazionale “Orange the world”, promossa dalle Nazioni Unite e sostenuta dal Sorptimist International. Inoltre, grazie anche alle risorse di Soroptimist siamo riusciti a creare luoghi protetti dove le vittime di comportamenti maltrattanti possono confidarsi con maggiore agio. Con il progetto “Una stanza tutta per sè... portatile”, un kit dotato di notebook e microtelecamera integrata per le registrazioni audio-video delle denunce e delle escussioni verrà fornito ai reparti dell’Arma, anche indipendentemente dalla presenza di una stanza d’ascolto protetta. Uno spazio, questo, presente nelle caserme di Reggio, Guastalla e Castelnovo Monti, affidato a personale specializzato e alle 79 carabiniere in servizio nella provincia, che accolgono le vittime con grande delicatezza. Cerchiamo, quindi, di rendere meno traumatico possibile il contatto con forze dell’ordine e istituzioni quando si arriva alla determinazione di denunciare il maltrattante».
La violenza di genere è un fenomeno trasversale: si manifesta con connotati tipici sul territorio reggiano? «No, questo fenomeno investe tutte le fasce sociali, tutte le culture di provenienza. Abbiamo applicato la misura del braccialetto elettronico indipendentemente da razza e ceto sociale. Ciò che deve cambiare è l’approccio culturale e il modo in cui viene visto il rapporto tra uomo e donna nella società ». Quali sono le prime azioni pratiche da mettere in atto quando si notano i primi campanelli d’allarme della violenza di genere?
«Il primo passaggio è acquisire consapevolezza. Talvolta si verifica una sorta di assoluzione del partner tanto da colpevolizzarsi: non è accettabile, queste relazioni sono tossiche. Quando se ne diventa consapevoli, occorre rivolgersi a chi se ne occupa. Ci sono più istituti per fronteggiarle, come l’ammonimento del questore, che consente all’autorità pubblica di raggiungere il maltrattante per redarguirlo. Ci sono tanti centri antiviolenza e diverse sono le associazioni disponibili ad accogliere le vittime. A volte, separarsi, quando la coppia ha figli, può sembrare l’ultima delle alternative. Ma i comportamenti maltrattanti lasciano segni anche sui più piccoli e ci si deve chiedere quanto sia salutare che crescano in questo contesto. Desidero ricordare che la porta dell’Arma è sempre aperta a chi ha bisogno di noi».