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«La mia voglia di vincere non muore mai»

di Vanni Zagnoli
«La mia voglia di vincere non muore mai»

Basket: Rimas Kaukenas, al terzo anno con la Grissin Bon, si racconta a tutto campo, dalla famiglia alla sua Lituania

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REGGIO EMILIA. Il Kaukenas ter, alla Grissin Bon inizierà mercoledì 19 agosto quando il fuoriclasse lituano, a 38 anni, si prenderà di nuovo beffe dell’anagrafe.

Rimas ha rinnovato il contratto, d'accordo con l'agente statunitense Kenny Grant, e ha la storia più affascinante fra i giocatori di Massimiliano Menetti. Ce la racconta lui stesso ma sospirando, per la difficoltà nel trovare sempre le parole giuste, nell'affrontare a caldo temi che esulano completamente dal parquet.

Ora Kaukenas è in Svezia perché scandinava è la moglie, ex giocatrice di Wnba, la versione femminile della Nba. Tanja Kostic era stella a Oregon State, vinse l'Eurolega nel 1998 a Bourges (Francia) e poi tornò in America: giocò a Portland, Cleveland ed a Salt Lake City, nello Utah.

Rimas, intanto ci presenta la sua famiglia?

«Ho tre figlie: la maggiore è Tia, poi Vanessa ed Emma. Al basket capita che si vestano di verdegiallo, come la mia Lituania».

Com’è giocare a Reggio Emilia?

«Il tifo è caldo, i fans ci sostengono e noi prendiamo energia: in campo si trasforma in una difesa più aggressiva, in un recupero in più; questione di mentalità».

E com'è la città?

«Vivibilissima. L'ideale per far crescere le mie figlie ed abitare con la moglie. Qui siamo felici».

Come fa a resistere a questi livelli altissimi, alla sua età?

«E' la voglia di vincere, difficile da spiegare. Forse l'abitudine, in fondo gioco da quando avevo sette anni, dunque sono trentuno. E in Italia sono da un decennio, fra Cantù e Siena, in mezzo c’è stata la parentesi con il Real Madrid».

In Toscana vinse i 5 scudetti in sequenza, sembrava appagato e invece resta tiratissimo, sul piano fisico. Al punto che un anno fa Menetti sottolineava come in base ai test lei fosse il migliore…

«Dipende dai periodi, nei play off ho avuto anch'io la febbre…».

A Reggio il mito è Mike Mitchell, scomparso a 55 anni ma in campo sino a 41. C'è la possibilità che Kaukenas imiti la parabola cestistica dell'indimenticabile americano?

«Vediamo. Ma ora parliamo solo di questa stagione».

Si aspettava un impatto così forte, sul basket italiano, del suo connazionale Darjus Lavrinovic, a 35 anni?

«E' uno esperto, lavora tanto e gioca per la squadra. Sa muovere la palla, apre le situazioni, semplifica il gioco».

In Lituania lei ha una fondazione con cui aiuta i bambini malati di cancro.

«Magari i bimbi là non hanno tanto da vivere (come aspettativa e pure come ricchezza, ndc), però hanno molti sogni. In patria noi cestisti siamo molto popolari ed allora sfruttiamo la nostra immagine. Loro stessi, i bimbi, ci vogliono vedere, parlano volentieri con noi. Proviamo a fare qualcosa, insomma».

Lo fa anche perché lei ha conosciuto la sofferenza, ai tempi della guerra nei paesi baltici?

«In parte. La Lituania cercò l'indipendenza dall'Unione Sovietica nel 1991, all'epoca venne creata la Csi (Comunità degli Stati Indipendenti, ndc), a livello sportivo. Il nostro Paese in quel periodo era molto bloccato rispetto al mondo esterno, ma lo sport e in particolare la pallacanestro avevano contribuito all'unità della nazione. Ci spingeva ad avanzare, sul parquet, anche per spirito nazionalistico».

Che ricordi ha, dell'infanzia?

«In inverno, dovevo camminare due ore in mezzo alla neve per andare ad allenarmi nel centro di Vilnius. Allora i militari russi avevano bloccato la capitale e non c'erano autobus, le scuole erano spesso chiuse: il basket era l'unico modo per sentirsi vivi»..

Nel 1992, a Barcellona, la Lituania disputò la prima Olimpiade come stato indipendente.

«Avevo 15 anni, la guardai in tv. Sopra tutti Sabonis, Marciulionis e Chomicius mostrarono al mondo che il basket era la nostra lingua, la nostra religione. Eravamo pochi, ma esistevamo e non avevamo bisogno di usare le armi. Quando ci penso, mi vengono ancora i brividi, a distanza di ventitré anni».

I gialloverdi si aggiudicarono il bronzo proprio contro l'Unified Team, quel che rimaneva dell'ex Unione Sovietica. Ora lei passa un po’ dell’estate a Vilnius?

«In parte. Là ha sede la mia fondazione, Rimantas Kaukenas charity group. Siamo un gruppo di volontari, aiutiamo i bambini in situazioni critiche. L'ho fondato tre anni fa e aderiscono vari personaggi, a partire da Ilgauskas».

Avete già contatti con altre nazioni?

«Ancora no, non siamo così grandi…».

Molti lituani sono stati in Nba, perché lei no?

«Ho avuto manifestazioni di interesse, mi volevano i Los Angeles Clippers per la Summer league. All'uscita dal college e poi dopo il primo anno di Siena».

La Lituania non è così conosciuta, in Italia. Quali personalità vanta, a parte i cestisti?

«I più noti sono proprio i giocatori, il primo in Nba fu Marciulonis, poi arrivò il pivot Arvidas Sabonis, ai Portland Trailblazers».

Il calcio da voi non è seguito?

«Molto meno. E come nazionale non siamo così competitivi. D'altra parte abbiamo appena tre milioni e mezzo di abitanti, è già un miracolo essere sempre fra le migliori nazioni al mondo nel baske».

Sembra l'Uruguay nel calcio, due mondiali e sempre protagonista anche in copa America.

«Esatto. C'è grande concentrazione di campioni in entrambe le nazioni, nei rispettivi sport».

Provi a disegnare il suo quintetto verdegiallo di ogni tempo.

«Jasikievicius playmaker, ex Indiana e Golden State e in Grecia, al Panathinaikos, poi Marciulionis, primattore sempre con i Warriors».

Come ala piccola vogliamo metterci Rimantas Kaukenas?

«No, eviterei. Non sono fra i migliori cinque della storia. Piuttosto un altro Rimas, Kurtinaitis, mai in Nba. Idem Karnisovas, che impattò benissimo a Barcellona e in altri grandi club. Come centro, naturalmente Sabonis».

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