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«Dobbiamo lottare per un mondo in cui poter essere atlete e madri»

Martina Riccò
ALICE PIGNAGNOLI
ALICE PIGNAGNOLI

Il portiere Alice Pignagnoli ha scritto il libro “Volevo solo fare la calciatrice”: «Racconto la mia storia nella speranza di poter essere di aiuto per le altre»

06 febbraio 2023
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Reggio Emilia «Volevo i capelli tagliati corti, provavo a fare pipì in piedi e declinavo il mio nome tanto grazioso a una forma maschile inesistente, solo perché mamma e papà mi avevano detto che non potevo giocare a calcio, perché il calcio era uno sport “da maschi”. E allora io volevo essere uno di loro, anche a costo di perdere la mia identità».

È così che inizia “Volevo solo fare la calciatrice”, il primo libro di Alice Pignagnoli, portiere reggiano con una lunga esperienza nelle massime serie del calcio femminile, che sul finire del 2022 è stata svincolata dalla società proprietaria del suo cartellino, la Lucchese, perché incinta del suo secondo figlio.

Nel libro, edito da Minerva Editori, Alice racconta le sue battaglie: quella della bambina che vuole giocare a calcio, quella della atleta professionista che vuole essere trattata come tale, quella della donna che non vuole doversi annullare nel ruolo di madre come invece la società, nemmeno tanto celatamente, chiede.

Alice, nel suo libro racconta che da bambina voleva solo correre dietro al pallone come il suo idolo, il campione del mondo Alex Del Piero. Non si è limitata ad appendere poster in cameretta, però. Da subito ha deciso che quel sogno sarebbe diventato un obiettivo e ha lottato per farlo diventare realtà. Le difficoltà maggiori le ha trovate in famiglia, ma anche nell’assenza di una rete che potesse accoglierla come giocatrice. Com’è andata?

«La società non era pronta a riconoscere questo desiderio, né dal punto di vista dei valori né da quello pratico (non c’erano squadre femminili giovanili o dei modelli di riferimento), e questo ha inciso non poco anche sulle decisioni dei miei genitori. Per molti anni li ho condannati duramente e apertamente per avermi ostacolato in un’attività in fondo così sana e genuina come lo sport. Ora da mamma penso che abbiano cercato di proteggermi da qualcosa che non conoscevano e che per questo gli faceva paura. Anche se lo continuo a trovare profondamente sbagliato so che, osteggiandomi, hanno contribuito a forgiare il mio carattere e prepararmi ai tanti ostacoli che avrei incontrato sul mio cammino».

Di anni da allora ne sono passati. La situazione è ancora la stessa? Una bambina che vuole giocare a calcio e che vuole fare del calcio la sua professione oggi può farlo?

«Oggi, per fortuna, almeno nelle maggiori città e in tutto il centro-nord Italia esistono realtà capillari sul territorio che possono affiancare una bambina che desidera compiere questo percorso, oltre al fatto che l’arrivo del professionismo ha delineato una strada praticabile. Ora nessuna potrà sentirsi rispondere quello che dicevano a me: “Fare la calciatrice non è un mestiere”. Ma nelle realtà più rurali e arretrate, a causa dell’inadeguatezza delle strutture, oltre che di una cultura ancora molto patriarcale e legata a valori arcaici, la situazione non è davvero cambiata. D’altro canto le bimbe (ma anche i genitori!) hanno oggi la possibilità di vedere le loro beniamine giocare, e possono ispirarsi ai loro percorsi, cosa che io non ho potuto fare costruendomi da sola dei modelli (con grande difficoltà). Ma c’è ancora tanto da fare».

Un particolare che colpisce, nel libro, è la frustrazione che provava quando, da calciatrice, si trovava in società che non avevano mezzi adeguati, campi curati, e soprattutto fornivano alle giocatrici divise raffazzonate. Il suo non era certo un capriccio legato all’estetica, no?

«Il fatto che il calcio femminile non venisse riconosciuto come un’attività degna di esistere, ci toglieva la possibilità di avere le sovvenzioni adeguate da qualsiasi lato: dai campi ai palloni, dagli istruttori alle divise. Era tutto di seconda mano, era quello che il maschile “non voleva” o che al maschile non serviva. Certo era già una conquista quello che avevamo, come mi raccontavano le compagne più anziane, ma per me il sentirmi bene dentro quel ruolo, che così faticosamente mi ero ritagliata e cucita addosso in anni di battaglie, e non sentirmi sempre “uno scarto del maschile” o una copia venuta male, passava anche dall’avere una divisa degna di quel nome».

Leggendo il libro emerge in modo molto chiaro lo sforzo che hai dovuto compiere per tenere insieme due mondi, due binari: quello dell’Alice calciatrice e quello dell’Alice lavoratrice. Perché se da un lato si è sempre impegnata per diventare professionista ed essere trattata come tale, allo stesso tempo non si è mai raccontata bugie: di calcio una donna non poteva vivere.

«Questo è certamente il mio rammarico più grande: non aver potuto vivere il calcio da vera professionista, dandogli il cento per cento delle energie come avrebbe meritato un percorso arduo e faticoso come il mio, e non poter vedere cosa avrei potuto fare, vivendo il calcio come hanno la possibilità di fare le ragazze in serie A, oggi. Però questa doppia vita mi ha fatto comprendere la cosa più importante che dovrebbe trasmettere lo sport: non esistono sogni troppo grandi e non esistono scuse per chi ha una vera motivazione e vuole raggiungere un certo obiettivo».

Arriviamo a una delle pagine più difficili: quando si è trovata a scegliere se essere calciatrice agonista o mamma. Decidendo di non rinunciare a nessuna delle due ha, ancora una volta, lottato per abbattere una barriera. Pensa di esserci riuscita?

«Purtroppo credo che potremo dire di esserci riuscite quando nessuna di noi verrà mai più posta nella condizione di dover scegliere, anche solo doverci pensare, e per questo credo siamo ancora lontani. Però ho giocato la mia partita, insieme alle persone che me l’hanno permesso (mio marito e le nostre famiglie, su tutti) e l’ho fatto con tutta me stessa. La cosa più importante che sento di aver raggiunto è aver dimostrato all’ambiente, a tutte le ragazze, e alle bambine perché no, che non è necessario scegliere. Un esempio concreto che io non ho avuto la fortuna di avere, e a causa del quale sono cresciuta con l’idea, che ha sempre pesato sulla mia testa come una spada di Damocle, che quando avessi scelto di fare famiglia sarebbe stata la fine della mia carriera».

Cosa pensa si debba fare per permettere alle atlete di poter avere una famiglia? È recentemente balzata alla cronaca per il trattamento che le ha riservato la società in cui era tesserata, la Lucchese, dopo aver scoperto di aspettare un altro bambino, dunque di strada ce n’è ancora tanta da fare...

«Le leggi che ci tutelano, fortunatamente, esistono da qualche anno. Anche se la leggerezza con cui la Lucchese ha pensato di poterle aggirare fa capire tristemente quanto ancora le società abbiano in mano tutto il potere contrattuale: noi ragazze non siamo altro che merce di scambio. Allo stesso tempo è fondamentale lavorare sul dopo: la maternità non termina quando una mamma rientra in campo. In quel momento è appena cominciata “l’avventura” ed è necessario prima di tutto che esista una sorta di carta dei diritti dello sportivo che permetta a chi tenta questo precario equilibrio di mamma calciatrice di essere tutelata almeno nei diritti minimi degli esseri umani. Poi, esclusa la serie A professionistica, occorre che se le somme corrisposte e i servizi associati (baby sitter, sostegno pre e post parto ecc.) non sono in grado di assolvere ai bisogni minimi, si trovi una soluzione insieme alla mamma che le permetta di conciliare gestione del bambino e attività sportiva (cosa che a me a Cesena non è stata concessa dopo il primo anno)».

Non che nel mondo del lavoro vada molto meglio. Dunque estendiamo la domanda: da donna cosa vorrebbe che succedesse a livello di società?

«Sogno un mondo in cui le mamme vengano valutate per le loro performance, considerando anche una normale flessione nei mesi più difficili dell’accudimento, valutando quello che è stato fatto prima delle gravidanze, ma soprattutto essendo consci di cosa una donna può fare quando le si forniscono supporto e vera comprensione. Sogno un mondo dove le donne vengano valutate a 360 gradi per le loro performance e non per quante ore passano davanti al computer al di fuori dell’orario di lavoro ordinario; in cui gli orari di lavoro, anche grazie alle facilitazioni che ci permette la tecnologia oggi, vengano sfruttati al meglio per permettere a tutti (non solo ai genitori) di conciliare vita privata e vita professionale. Sogno un mondo in cui i figli non siano un “problema” delle mamme, ma una risorsa su cui tutta la società decide di investire».