Gazzetta di Reggio

la domenica

Quei 24 secoli ad Alta Velocità meno uno, il 900

di STEFANO SCANSANI
Quei 24 secoli ad Alta Velocità meno uno, il 900

Reggio del passato ha una memoria prossima L’immagine, anche i tic e la fama, sono recenti

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Reggio e la storia, la storia e Reggio. Propongo l’intervento che ieri ho proposto al convegno nella sala del Capitano del Popolo.


Più che concludere il convegno di ReggioStoria preferisco aprire un dibattito da portar fuori. Aprire, cominciando a mettere in discussione come sono, quante sono e a che cosa servono mattinate di studio come queste. Ma prima consentitemi un’analisi, da straniero, intruso cugino, guastafeste.

Approdando a Reggio – città pragmatica e laboriosa, post-ideologica e in deficit identitario – ho immediatamente intuito la sua predilezione tecnologica, economica contemporaneista.

Cioè, qui tutto parla del presente o – al massimo - del passato prossimo. Novecento.

La storia si raddensa e sosta nei pressi di tre vicende, tre pit stop, direbbero gli appassionati di automobilismo:

1.L’invenzione prampoliniana della cooperazione.

2.La Resistenza e la Liberazione.

3.Il dopoguerra inoltrato con la sua narrazione politico-sociale tutta reggiana.

Su tali vicende s’innerva più la reggianitudine (che è una qualità, uno stato d’animo) che la reggianità (che è un’ideologia retorica). Dunque una reggianitudine che attraversa e incrocia sempre e comunque l’inscindibile vicenda partitica, amministrativa, quella delle scelte e della galleria dei personaggi.

Cioè, Reggio sul Novecento costruisce tutti i suoi propri caratteri, le vocazioni, l’immagine, anche i tic e la fama.

Rari invece sono i pit stop che Reggio si permette di esibire e nutrire in quella porzioncella, in quella fettuccina, in quegli umani anni luce che separano il Novecento dal mondo a ritroso: etrusco-padano e ligure, la costruzione della via Emilia con la fondazione della città. Almeno ventiquattro secoli che passano sottogamba, veloci come un treno dell’alta velocità, meno uno: il Novecento.

Secoli reggiani, così rapidi e inesplorati che possono essere enumerati in due circostanze soltanto:

1. Matilde di Canossa in quanto Matilde fra il 1046 e il 1115.

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2. L’adozione del Tricolore nel 1797.

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In un certo modo Matilde rappresenta l’esordio e l’antipodo medievale dei nostri giorni, è il c’era una volta. Forse perché l’icona di Matilde pare comprendere unità, indipendenza e – aggiungo – identità. L’attuale fortuna della grancontessa infatti consente una sovrabbondante stratificazione di miti, falsi storici, immaginazioni. Sostiene un sentimento popolare, titola le rappresentazioni in costume, rappresenta una patrona laica e una storia presunta, addirittura un territorio reggiano caput mundi, stato sovrano fra il papato e l’impero. Reggio capitale… ma nel Medioevo. Qui sta il sottile, sottilissimo complesso d’inferiorità rispetto all’intorno.

Questa psicologia, questa voglia della centralità di Reggio è quindi perpetuata dalla festa del 7 gennaio, nazionale e patriottica, anche anti-secessionista. La solennità nazionale dell’adozione della bandiera italiana è in linea con le vocazioni di Reggio, sigillate da quell’altra definitiva e più recente puntata novecentesca della Resistenza e della Liberazione. Reggio è vessillifera, pre-capitale... dell’Italia unita e infine liberata.

Se davvero la storia maiuscola e minuscola di Reggio si raggruma nel Novecento, essa è inevitabilmente soggetta a una difficile analisi, a un’ardua critica, a un complesso esame.

Perché il tempo è troppo vicino, perché è in corso, oppure in piena evoluzione. Perché è il tempo nostro, indecifrabile e omologato. Oltre tutto qui a Reggio la storia del dopoguerra è un viluppo così sacrosanto e radicato che frequentemente risulta intoccabile, come fosse un riflesso condizionato, come fosse appartenuta a una militanza totale, a un credo condiviso che per decenni e decenni ha perpetuato e formato gente, intellettuali, dirigenze. Tabù.

Faccio due conti. Se i secoli precedenti soffrono di un gap identitario, il Novecento non consegna al Duemila un’appartenenza. O meglio una risposta alle domande: in che cosa ci riconosciamo? Chi siamo? Di quale percorso siamo l’esito?

Tra l’altro la città e i suoi riferimenti, i suoi obiettivi, hanno traiettorie infrastrutturali e economicistiche, per scelta preferenziale. Di conseguenza e per forza lo studio del tempo resta insoddisfatto, inespresso, non primario.

Ecco perché ho esordito affermando che più che chiudere il convegno è meglio aprire, cioè cominciare a mettere in discussione come sono, quante sono e a che cosa servono mattinate come queste.

Occasioni che bisognerebbe fare uscire dall’area degli appassionati, dei volenterosi resistenti, per creare occasioni di lezione pubblica, ampia e sistematica. L’impegno di ReggioStoria è perciò encomiabile.

Non sono pessimista, perché è evidente e premente un aspetto che sfugge. Imponente. Ogni qual volta si staglia un’occasione nella quale si parla, percorre, si rivisita e insegna la storia di Reggio, c’è folla. Un appetito di sapere e di essere che attende soddisfazione. Proprio su questa attesa “non c’è storia”.

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