Gazzetta di Reggio

Fotografia Europea, viaggio tra sogno e realtà

Giulia Bassi
Fotografia Europea, viaggio tra sogno e realtà

Un itinerario tra mostre e installazioni per vedere (e costruire) un mondo nuovo

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REGGIO EMILIA. La differenza rispetto al passato, oltre a una diversa organizzazione logistica con molte mostre open air, è la presenza eccezionale di un’artista visuale apparentemente non collegata con la fotografia; ma non è così perché i lavori di Sophie Whettnall partono da degli scatti. Lei tra l’altro è l’autrice dell’opera simbolo della 16esima edizione di Fotografia Europea (inaugurata ieri e che durerà fino al 4 luglio) in quanto appare direttamente collegata al verso di Gianni Rodari: «Sulla Luna e sulla Terra/fate largo ai sognatori!», scelto come tema dell’edizione 2021 del festival.

CHIOSTRI DI SAN PIETRO

L’opera di Sophie Whettnall sta nel Chiostro Piccolo di San Pietro, coperto come se fosse un cielo disseminato di stelle, mentre le altre dal titolo evocativo “Universo dentro” sono a pianoterra del Chiostro Grande insieme ad altre otto esposizioni. Pur nella diversità dei pensieri e delle motivazioni degli autori scelti, si può trovare un unico filo conduttore nella domanda precisa sul ruolo delle immagini in questo particolare e difficile momento storico, ponendo l’accento sulla loro natura complessa.

E così si parte idealmente per “L’Isola” di Vittorio Mortarotti e Anush Hamzehian, un racconto fotografico dedicato a Yonaguni, il territorio più a Ovest del Giappone, paese che per primo tutelò non solo i beni culturali materiali ma anche quelli immateriali (pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze), ma di cui oggi si sta perdendo memoria; a Yonaguni adesso non c’è futuro.

Qui, nel corso di quattro viaggi, Hamzehian e Mortarotti hanno mappato fotograficamente l’isola e hanno raccolto dagli abitanti le storie, i miti, i rituali del posto. La documentazione su Yonaguni è restituita al pubblico attraverso un’installazione audio-video, mentre una serie di punti di ascolto sparsi per la città diffonde la lettura integrale di tutti i lemmi della lingua autoctona, il dunan, che sta scomparendo.

Oltre alle geografie reali anche quelle immaginarie di Noémie Goudal che si caratterizza per l’approccio analogico. Presenta tre serie – Telluris, Soulèvement e Démantèlement – che costituiscono la base di una suggestiva installazione site-specific caratterizzata da una struttura scheletrica di legno che ospita le opere per esaltarle nella loro artificiosità: Telluris evoca paesaggi montani costruiti nel deserto composti da venticinque cubi di legno impilati; Soulèvement, visioni illusorie di formazioni rocciose frastagliate; mentre con Démantèlement la Goudal scolpisce il paesaggio, ma riducendo gradualmente, e alla fine cancellando totalmente, la vista di creste e cime vere e proprie per sfidare lo sguardo geologico degli spettatori. Un lavoro al limite dell’astrazione, tra il reale e l’immaginario, in ogni caso molto poetico, è “Aura” di David Jiménez, che fa “risuonare” insieme le immagini avvalendosi di una sorta d’alleanza tra coppie di fotografie: in questo senso, più che comporre un dittico, danno origine a una nuova immagine, prodotta dalla somma integrata delle loro parti. Questi incontri generano una scintilla, il contatto tra due frammenti di realtà finisce per formare in alcuni casi un’unica immagine, composta da parti diverse, la cui somma totale sembra impossibile, anche se veritiera da un punto di vista onirico. Il suo scopo è quello di ricreare una rete segreta di connessioni attraverso un universo di immagini ricche di indizi nascosti.

Un altro racconto singolare lo fa Raymond Meeks con Halfstory Halflife che parla di rituali associati al raggiungimento dell’età adulta. Lo racconta attraverso esuberanti foto scattate dalle Catskill Mountains di New York che scendono per circa 18 metri su una pietra calcarea coperta di muschio presso cui i giovani del posto si lanciano e sembrano volare.

Di forte impatto anche per l’allestimento è la mostra “Index G” (si tratta dell’indice Gini, la misura statistica di disuguaglianza, utilizzata anche per misurare la segregazione residenziale) del reggiano Piergiorgio Casotti che insieme a Emanuele Brutti ha approfondito la diversa manifestazione del fenomeno dell’apartheid che nelle aree metropolitane statunitensi è diminuito in alcuni livelli geografici (quartiere-quartiere) aumentando però su altre scale spaziali. L’idea è di mostrare, tra silenzi, solitudini e squallore, una discontinuità tra “sistemi spaziali umani” adiacenti. Le foto alle lunghe strade deserte e al centro volti dalla tristezza infinita si manifestano come un’opera teatrale espressiva e pregnante in cui viene rappresentato un limbo pieno di tensioni e dubbi. Nulla accade apparentemente, ma la storia si svolge nel silenzio delle vite.

A proposito di altri mondi, Yasmina Benabderrahmane con “La bête: a modern tale” ci fa vedere lo stridente contrasto tra il Marocco di ieri, con le materie prime a livello del suolo e del corpo, e il Marocco di oggi, in cemento e roccia: nella valle di Bouregreg, a pochi chilometri da Rabat, si sta costruendo un nuovo centro culturale, un teatro e un museo archeologico, un progetto colossale voluto dal re che assomiglia a una bestia, una figura della modernità che divora il paesaggio alterando la fisionomia di un paese ancestrale. Più in là, si trovano le pianure aspre di Chichaoua, dove le tradizioni si tramandano da una generazione all’altra, dove le storie raccontate da voci sommesse riuniscono le famiglie durante la celebrazione dell’Eid El-Kebir.

Cattedrali nel deserto ma anche torri di vedetta nei posti più angusti della terra. Ce li mostra Donovan Wylie con The Tower Series: un progetto che abbraccia tre luoghi legati da imperativi imperiali di lunga data – l’Irlanda del Nord, l’Afghanistan e l’Artico canadese – e lavora attraverso tre distinti idiomi paesaggistici – il pastorale, il sublime e il romantico – per interrogare la relazione dello sguardo con la dominazione e il potere. Le fotografie riguardano ciò che non può essere visto e la paranoia, la solitudine e l’isolamento che perseguitano i nostri sforzi per ve derlo.

PALAZZO MAGNANI

A Palazzo Magnani riprende la suggestiva mostra “True Fictions. Fotografia visionaria dagli anni ’70 ad oggi” a cura di Walter Guadagnini. L’esposizione comprende lavori di artisti e fotografi del calibro di Thomas Demand, David Lachapelle, Tracey Moffatt, Andres Serrano, Cindy Sherman, Hiroshi Sugimoto, Jeff Wall e molti altri. Si tratta della prima antologica in Italia dedicata al lato più immaginifico della fotografia che, a partire dagli anni Ottanta, ha rivoluzionato il linguaggio fotografico.

PALAZZO DA MOSTO

A Palazzo da Mosto sono allestite “Camere che sognarono camere” progetto di Sabine Vollmann-Schipper e Laura Gasparini che consiste nella conversazione tra le opere di Thomas Demand e Martin Boyce e “Home is where one starts from”, selezione a cura di Francesco Colombelli dedicata ai Photobooks, dove si ammira una selezione di libri, sia di natura documentaria che artistica, in cui si affronta il tema dell’abitazione.

OPEN AIR

Per la prima volta nella storia del Festival, sette progetti di fotografi contemporanei sono protagonisti di allestimenti open air in sette aree cittadine: un modo diverso di vivere la fotografia, pensato per convivere al meglio con le restrizioni dovute all’emergenza sanitaria, e per essere fruito da un pubblico più ampio possibile. Tra queste estremamente attuale “Virus” di Antoine d’Agata, un documento visivo e bellissimo, allestito sulle finestre di un palazzo di via Secchi, che evidenzia la vulnerabilità umana durante la pandemia. È il primo capitolo di un lavoro in corso sulla pandemia e le sue conseguenze. Composto da immagini termiche scattate nei reparti di rianimazione degli ospedali, nei centri per rifugiati e negli spazi pubblici disabitati in Francia durante il primo lockdown. Antoine d’Agata ha seguito il calore immagazzinato dai corpi, prima in strada alla ricerca di quelli ai margini della vita sociale, i senzatetto, i drogati e le prostitute che non avevano accesso ai rifornimenti e continuavano a vivere per strada, e poi nelle unità di cura e rianimazione Covid-19 dei grandi ospedali, dove ha trovato qualcosa come un rapporto liturgico con i corpi. L’uso della tecnologia termica offre la possibilità di catturare informazioni che la fotografia da sola non può catturare.

Di forte impatto, impeccabile per stile, è l’Opera Aperta di Alex Majoli presentata in grandi wallpaper appesi in vari spazi cittadini, un progetto commissionato e prodotto da Fondazione I Teatri e Reggio Parma Festival. Nel febbraio del 2020 Majoli si trovava a Reggio Emilia, stava lavorando con la Fondazione I Teatri, nel mentre la pandemia cominciava ad entrare nelle sue foto, ogni giorno i suoi soggetti cominciavano a mascherarsi gradualmente, il bollettino dei contagi delle sei di sera cresceva, l’epidemia da Codogno si avvicinava a Reggio Emilia. L’8 marzo tutto si è fermato, il teatro ha chiuso, e Majoli e il suo assistente sono partiti per un viaggio in Italia per documentare una tragedia contemporanea. Dopo più di un anno, con Paolo Cantù direttore de I Teatri, ha deciso di riprendere il lavoro che aveva lasciato. Ci prova, nonostante l’Emilia Romagna venga dichiarata zona rossa e il teatro e tutte le attività vengano chiuse. La mostra, assieme al libro che sta per essere stampato, non sono più solo fotografia, sono diventati anche paragrafi aperti sul Sars-Cov-2.

SPAZIO GERRA

Allo Spazio Gerra gli artisti Gianluca Abbate (Terra ignota), Martin Baraga (Bereza), Annamaria Belloni (Supernatura), DEM (Stela) propongono Back to land, un’installazione nel giardino retrostante la struttura, una riflessione critica dedicata alle aree rurali.

CHIOSTRI SAN DOMENICO

Ai Chiostri di San Domenico la collettiva “Reconstruction” di Giovane Fotografia Italiana, progetto del Comune di Reggio giunto alla sua ottava edizione, che valorizza i talenti della fotografia italiana contemporanea under 35.

ALL’ORIZZONTE

Anche la facciata esterna di Palazzo dei Musei ospiterà, a partire da settembre 2021, un’opera fotografica, o meglio un maxi mosaico di foto dal titolo ospiterà “Curiosa meravigliosa”, un progetto di arte partecipativa ideato dall’artista catalano Joan Fontcuberta che celebra le meraviglie del museo e i suoi visitatori: un lavoro corale, basato sulla partecipazione cittadina. L’opera, infatti, sarà creata con le dodicimila inviate dai cittadini stampate su tessere in ceramica. —

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