Gazzetta di Reggio

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«Un album dedicato a Noi tra tenerezza e speranza»

«Un album dedicato a Noi tra tenerezza e speranza»

Luciano Ligabue si racconta alla luce di un inizio di decennio desolante: «Quando la paura fa sentire soli è il momento di condividere dubbi e valori»

18 settembre 2023
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di Chiara Cabassa

Ti prende per mano. E tra qualche bacio che guarisce, le dita ad accarezzare i tagli, i grovigli di speranze e paure, gli incontri che fanno improvvisamente e inevitabilmente cambiare strada, ti riporta a casa. Come se l’amore avesse sempre e comunque a che fare con qualcuno capace di riportarti a casa. Ed è quello che Luciano Ligabue mirabilmente fa con le undici tracce di “Dedicato a noi”, il suo quattordicesimo album di inediti in uscita venerdì 22 settembre che arriva a distanza di tre anni dalla pubblicazione di “7” e della raccolta “77+7”. Un album dove il “noi” a cui fa riferimento è carico di rimandi e di déjà vu. Ma con un valore aggiunto e un nuovo atteggiamento.

Luciano, quanto è importante questo “noi” e come si è trasformato nel tempo?

«È un noi che non ha mai avuto una definizione precisa ma è soprattutto un noi con il quale ho sempre confessato il mio bisogno di appartenenza, di sentirmi parte di un insieme. Per uno come me che deve avere sempre la massima libertà di pensiero, che ha in ogni occasione sottolineato come il percorso di ognuno di noi sia unico e irripetibile, essere parte di un noi significa condividere valori, speranze, dubbi, convinzioni. È una necessità che ora sento ancora più forte alla luce del periodo che stiamo vivendo. L’inizio di questo decennio è il peggiore che chi ha la mia età possa ricordare. Penso alla pandemia, alla guerra in Ucraina, agli effetti disastrosi del cambiamento climatico, alla scia di cronaca nera, a partire dagli inarrestabili femminicidi che hanno segnato quest’ultima estate. E di fronte a una disgregazione e fragilità sociale mai così devastanti, con una generazione Z che non vede davanti a sé alcun futuro, quando non hai più punti di riferimento e la paura ti fa sentire ancora più solo tra tensioni ed egoismi, allora dobbiamo trovare il modo di condividere valori e nel nome di questi riuscire insieme a portare avanti, e lo dico con una buona dose di testardaggine, un senso di speranza».

Trent’anni fa usciva “Non è tempo per noi” (e non lo sarà mai). Una profezia che si è avverata?

«In realtà nel “noi” che canto ora ci sono una maggiore tenerezza e una minore amarezza. È come dopo tutta questa strada fatta insieme ci meritassimo una ricompensa rispetto a ciò che stiamo vivendo. E la ricompensa è anche semplicemente quella di stare ancora insieme. Poi, negli occhi e nell’anima, porto la visione delle tantissime persone che ho incontrato in oltre ottocento concerti... Quel noi di cui faccio parte insieme al mio pubblico si sovrappone al noi della realtà quotidiana anche se alla fine è la stessa condivisione ad accomunarli».

Nei nuovi brani si respira forte il desiderio o piuttosto la necessità di tornare a casa e di stringersi con forza ai propri affetti. Detto da chi non si è mai voluto allontanare dalla sua Correggio ha una forza ancora più prorompente.

«Diciamo che da 63 anni vivo dove ho sempre vissuto. Ho un forte senso della famiglia e, anche se mi sono separato, quel senso rimane. Ho avuto due genitori meravigliosi che sono arrivati alla quinta elementare ma rappresentano per me un modello eterno di valori e di sentimenti. Sarò loro grato eternamente per tutto quello che mi hanno insegnato. Ma, a proposito dell’ulteriore necessità di restare accanto ai propri affetti, è chiaro che in un momento così frastagliato e pieno di incertezze, quell’abbraccio deve essere ancora più forte e stretto».

Seguendo una sorta di geografia sentimentale, in “Dedicato a noi” vengono citate Correggio e Albinea, giusto per non spostarci troppo da casa, ma c’è anche un commovente atto d’amore verso la città eterna. Quali sono i suoi luoghi del cuore?

«Detto che il mio luogo del cuore per eccellenza è Correggio, il paese dove ho scelto di vivere da sempre, e detto che ho fatto raccontare a Stefano Accorsi, in “Radiofreccia”, l’inevitabile voglia di scappare che ho provato a vent’anni, mi considero un amante appassionatissimo della nostra Italia. Sono stato a Venezia la settimana scorsa e ogni volta mi commuove. Quanto a Roma, all’interno delle sue meraviglie si respira tutto il disagio diffuso da Nord a Sud. Eppure, tornato da una lunga vacanza fatta quest’estate negli Stati Uniti, sono convinto ancora di più che il nostro Paese, con tutti i problemi che sappiamo, resta il migliore del mondo. Perché è la sua bellezza unica che continua a salvarci».

“Made in Italy”, l’album come il film, contenevano una dichiarazione di amore frustrato e disilluso verso l’Italia. Oggi quella rabbia è stata addomesticata?

«In “Made in Italy” racconto di un cinquantenne che, dopo avere perduto il lavoro, si vede costretto a stravolgere la sua vita e ad emigrare. E sempre in “Made in Italy” ho anche cercato di puntare il dito su un sistema economico spietato. Oggi sono convinto che questo Paese continui a non funzionare. Vuoi per una cattiva gestione, vuoi per l’incuria nostra perché, è innegabile, non tutti facciamo il nostro dovere e non tutti abbiamo lo stesso senso civico. Ed è proprio perché amo l’Italia che soffro ancora di più vedendola ancora immersa nelle stesse contraddizioni».

In una Italia sofferente, come se la sta cavando Reggio Emilia?

«Penso sia inevitabile che le città cambino all’interno di una società che cambia. Ma penso anche che, in questo contesto, Reggio resti una città dove l’attenzione verso l’altro e il senso dell’accoglienza siano speciali. Il fatto che sia una città con un altissimo numero di migranti chiaramente comporta una gestione ancora più complessa dell’esistente. Ma io sono ancora felice delle condizioni di Reggio dove vivo be ne. E, pur non essendo parte della cosa, sono felice come cittadino che sia decollata l’Arena al Campovolo. Penso che sia gestita in modo oculato e che rappresenti per la città un grande valore anche per quello che porta in termini di indotto».

Papà Luciano invece come gestisce i figli d’arte Lenny e Linda? Tra l’altro Lenny suona la batteria in tutti i brani di “Dedicato a noi” oltre a essere stato assistente alle registrazioni.

«Per quanto riguarda Lenny sono orgoglioso di quello che sa fare non solo come batterista ma anche come polistrumentista e produttore. È sua la produzione dell’ultimo album dei Clandestino. So anche che si sta muovendo in un mondo sempre più complesso e capisco quanto sia difficile per un giovane affermarsi. Quanto a Linda si è trovata in modo occasionale ad affrontare il teatro e, con l’Academy di Isabelle Adriani, ha avuto la grande soddisfazione di approdare al Lido di Venezia. Io penso che abbia una predisposizione alla recitazione ma è tutto molto prematuro. Che papà sono? Io cerco di supportarli senza spingerli in una direzione piuttosto che in un’altra. Se capisco che tengono veramente a qualche cosa allora cerco di aiutarli anche dal punto di vista psicologico. È chiaro che essere figli d’arte ha i due rovesci della medaglia: all’inizio hai una luce maggiore perché i riflettori si posano più facilmente su di te, poi diventa ancora più difficile dimostrare che vali».

Intanto si avvicinano le date del nuovo tour che parte il 9 e il 10 ottobre dall’Arena di Verona. Quant’è la voglia?

«Da un minimo e un massimo ...?».

Considerando che 7 è il suo numero fortunato, da 0 a 7 quanto?».

«Sette e mezzo. Io ho sempre voglia e bisogno di salire sul palco. Non smetterei mai. Perché sento la necessità di godermi lo spettacolo meraviglioso della gente che si emoziona con la mia musica e canta con me. Questa volta ci sono anche le canzoni nuove da cantare insieme... Non vedo l’ora».

Quindi vale ancora “il meglio deve ancora venire”?

«Io so solo una cosa – sorride Luciano –. Siccome il futuro non è scritto e nessuno sa cosa potrà accadere, almeno se lo pensi migliore vedi e vivi un presente più divertente. Questo è l’approccio. Poi si vedrà». l