Gazzetta di Reggio

L’intervista

Paolo Benvegnù «L’ultima libertà che ci resta è parlare d’amore»

Elisa Pederzoli
Paolo Benvegnù «L’ultima libertà che ci resta è parlare d’amore»

Venerdì 23 febbraio il concerto al Kalinka di Soliera (Modena)

22 febbraio 2024
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Soliera (Modena) C’è una specie di magia quando Paolo Benvegnù sale sul palco. Una luce che parte da lui, abbraccia i musicisti che lo accompagnano e avvolge il suo pubblico, con il quale c’è una relazione lunga decenni, un’intesa che non ha bisogno di parole, ma è saldissima negli sguardi e nel sentire. Venerdì 23 febbraio il cantante e musicista milanese fondatore degli Scisma torna in Emilia per portare al Circolo Arci Kalinka di Soliera (Modena) l’ultimo lavoro. Quel suo “Inutile parlare d’amore” (Woodworm) manifesto dell’esatto contrario: il bisogno, se non l’urgenza di rivendicare l’amore come unica possibilità in un momento storico dove sembra avere valore solo ciò che è utile.

Con il nuovo album, Benvegnù ancora una volta si fa narratore. Dopo l’Ep “Solo fiori” uscito nella primavera scorsa – una sorta di raccolta di racconti dove i protagonisti sono gli stessi – ora torna con qualcosa di più simile a un romanzo di formazione germogliato da quelle suggestioni o addirittura una potenziale opera cinematografica, come lui stesso ammette. Dove “io” e “tu” si trasformano in un Noi potentissimo: quell’Oceano infinito e inarrestabile, che la canzone che vede la bellissima collaborazione di Brunori Sas dipinge minuziosamente. L’altro duetto dell’album è nella canzone 27/12 dove compare Neri Marcorè.

Paolo, è davvero così? L’amore non è utile?

«No, è utilissimo invece. Una delle poche libertà che ci rimangono, perché amare obbliga a non seguire sentieri che sono già tracciati. Nell’amore di relazione non esiste una logica ferrea; quando esiste significa che una relazione è più una partnership, che è come fare partita doppia del sentimento. Quello non lo considero amore, ma una relazione che coinvolge altre cose rispetto alla realtà. Amare significa rischiare tutto, bruciare; uno stato del prepensiero dove pulsione e atto sono strettamente legati, dove non esiste un io, ma un noi. Non solo è utilissimo, ma fondamentale. L’ultima delle libertà che ci rimangono è parlare d’amore».

In questo album, si sente narrato un amore bruciante forse più che in altri lavori. È così?

«Sicuro, perché mai come in questo momento mi sento in vita da poco tempo. Come se, per certi versi, non mi fossi risvegliato, ma mi fossi svegliato all’alba del mio 60esimo compleanno. E perciò, c’è questo fatto di cui parlo spesso: la realtà che vedo non coincide con la realtà che vivo. E sono sempre stato molto attaccato, per timore probabilmente, alla realtà che vedevo. Ora, in considerazione anche delle storie degli altri, delle vite degli altri, penso di essere arrivato ad avere una fantasia diversa, che concerne la realtà incidentalmente. Per me la realtà è la somma di tutte le realtà che vediamo, ma anche di tutte quelle che non si verificano. Perciò ogni evento è un evento incidentale, non è detto che sia esattamente quello che viviamo. O almeno, lo viviamo nel reale, ma se fossimo altro percepiremmo altro...».

“È inutile parlare d’amore” arriva a 20 anni esatti da “Piccoli Fragilissimi Film”, il tuo primo lavoro da solista. È tempo di bilanci o è inopportuno chiedertelo?

«Per me tracciare bilanci è sempre inopportuno. Perché in pratica è come se vivessi da poco, ma anche perché tracciare bilanci non ha alcun senso, ovvero ha un senso come dire di spiegazione delle geometrie, però come si fanno a spiegare geometrie quando non si ha coscienza esatta delle geometrie che abbiamo sostenuto nel tempo? È come se io avessi fatto quello che ho potuto in quel luogo in quell’istante, perciò perché tracciare bilanci di qualcosa che non so neanche io di aver fatto, in molti casi? Questo perché il meccanismo della creazione anche se nei dischi permane, sottende per me a un meccanismo di comprensione delle cose che è caotico, che non riesco a matematicizzare e neanche lo voglio».

Posso però chiederti come era Paolo di allora rispetto a oggi?

«Diverso. Finalmente ho smesso di avere di paura. Ho molta meno ansia. Sono un uomo che ha sempre rincorso, adesso attendo un po’ di più».

Cosa attende Paolo Benvegnù nel 2024?

«Attendo quello che deve arrivare, non ho alcuna aspettativa precisa. Sono convinto del fatto che il desiderio, per quanto sia forgiante delle vite quanto meno in minima parte delle vite che viviamo, sia anch’esso incidentale. Io attendo ciò che deve arrivare con grazia, che non possiedo in me, ma che ho compreso attraverso la costruzione inutile di mille opere. Sono qui: attendo con felicità ciò che deve arrivare, qualsiasi cosa sia. Se c’è una cosa che non è cambiata rispetto a 20 anni fa è la mia ingenuità, la mia capacità di perdermi e di bruciare, nella vita».

Sei ripartito in tour, dopo Soliera ti aspettano molte date in giro per l’Italia. L’accoglienza del tuo pubblico è sempre intensa.

«Lasciami dire una cosa che dico spesso: probabilmente non abbiamo un pubblico, ma ci rivolgiamo a ogni essere umano, a quelle poche persone che intercettano quello che facciamo da tempo e perciò è una relazione tra privati, non c’è un pubblico, ma un privato. Questo traccia una differenza: noi, io e i miei compagni, non abbiamo alcuna volontà seduttiva. Non l’abbiamo mai avuta. Perché ricordare agli altri essere umani i nodi gordiani della propria esistenza non è affatto seduttivo. Detto questo, l’accoglienza è così materna da parte delle persone che vengono ai concerti come non l’avevo mai sentita: questo mi riempie di stupore, anche di responsabilità».

« Non vorrei cambiare mai questo atteggiamento: di essere insieme ai miei compagni un accompagnatore, un custode delle idee, che siano le nostre o che siano quelle degli altri – conclude –. Ciò che succede è stupefacente e ogni volta mi getta in uno stato di commovente inutilità. Io, noi dobbiamo pensarci inutili, non utili dal punto di vista funzionale. Se ci pensiamo inutili, come il titolo del disco, allora possiamo realmente entrare in un meccanismo di relazione che non ha niente a che vedere con do ut des, ma semplicemente gettarsi nel mare, trovare una stella marina e farla vedere agli altri».