Gazzetta di Reggio

L’intervista

Murubutu ai Chiostri in versione jazz: «Incursioni strumentali e narrazione»

Adriano Arati
Murubutu ai Chiostri in versione jazz: «Incursioni strumentali e narrazione»

L’esibizione assieme alla Moon Jazz Band martedì 2 luglio

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Reggio Emilia Una nuova sfida per aprire strade non ancora percorse sul futuro. Torna a esibirsi nella sua Reggio Murubutu, nome d’arte di Alessio Mariani, rapper e docente di storia e filosofia al Canossa. Ma lo fa in una veste insolita rispetto alle classiche scansioni hip hop che da decenni accompagnano i testi grazie a cui è diventato un autore apprezzatissimo a livello nazionale.

Martedì 2 luglio Murubutu suonerà ai Chiostri di San Pietro assieme alla Moon Jazz Band, in un evento denso di valore. Il concerto segnerà la prima tappa reggiana del tour jazz in cui ha deciso di impegnarsi, la seconda in assoluto dopo l’esordio al prestigioso club Blue Note, e aprirà ufficialmente l’edizione 2024, la rassegna musicale estiva curata come sempre da Ater, divisa in decine di proposte tra reggiano e modenese. Dal punto di vista musicale, la novità è l’assenza completa di basi, batteria elettronica e dj, sostituite da una giovane formazione di jazzisti: Dia alla voce, già da tempo al fianco di Murubutu, Filippo Cassanelli al contrabbasso, Vincenzo Messina alla batteria, Giacomo Grande alle tastiere, Federico Califano al sax contralto e Gabriele Polimeni alla tromba e al flicorno.

Un mondo nuovo, per chi viene dall’hip hop?
«Intanto, devo dire che mi fa sempre piacere suonare a Reggio, ancora di più in certi luoghi. Sono molto contento di poter riproporre il mio repertorio interamente in chiave jazzata. È una connessione tra due mondi, i musicisti sono davvero bravi, fanno esclusivamente jazz e sono riusciti a piegare alla loro arte i miei contenuti».

Contento dell’esito?
«I risultati sono davvero di grande soddisfazione».

Il passaggio è radicale, nessun elemento dell’hip hop. Perché?
«Non ci sono computer o basi, è tutto più autentico. Non è stato semplice, perché manca anche la chitarra, strumento che i jazzisti in senso stretto usano poco».

Non rimane nessuno dei suoi riferimenti sonori usuali, quindi?
«No. Non è stato facile rinunciare alla batteria elettronica e alla chitarra, mi sono dovuto mettere in discussione».

Anche nella voce? La sentiremo cantare nel senso classico?
«No, io rappo, Dia canta e assicuro che va bene così! Io faccio il mio solito, la band ha capovolto completamente le basi con un approccio jazz, ma le canzoni sono le mie, con il mio approccio».

Il vestito sonoro però incide, no?
«Il tappeto è completamente diverso, certo, non era facile riprodurre certe scansioni e rivederle, ma credo che tutti si leghi beni. La protagonista è la narrazione, come sempre, c’è però più spazio per escursioni puramente strumentali».

Prove tecniche di futuro?
«Il jazz mi ha messo a confronto con un’ipotetica mia evoluzione musicale. Ho sempre più voglia di confrontarmi con altri generi provenienti dalla musica nera soul, come blues, jazz, reggae, sempre contaminandoli col rap».

Una simile variazione incide anche su come scrive?
«Il cambio mi costringe a ragionar in senso melodico, cosa che non sono abituato a fare. Non è un vero e proprio canto, ma certo c’è una curva melodica più marcata rispetto a quanto non avessi fatto finora».

Soddisfatto di questi passi?
«Devo pensare in senso melodico e a gestire la mia voce in questo senso, a volte sono contento, a volte penso di strafare, ma ritengo sia normale in un progresso artistico. E io sento il bisogno di osare, di sperimentare».

Tutto questo potrebbe mutare anche il lavoro sui testi?
«No. Nei contenuti rimango legato a un approccio narrativo, è sempre quello che mi piace di più. Parlare delle storie degli ultimi, parlare di storia, letterature, di filosofia, di biografie. Se ho più melodia e meno parole devo gestire i contenuti in maniera diversa, ma non i temi».

Questi anni, così densi, offrono pure tanti spunti.
«È un periodo difficile. Guerre, tensioni, l’ascesa della destra in Europa: sono temi che ci fanno riflettere molto. Spesso parlo del passato per parlare del presente, usando il mio approccio narrativo storico. Figlio sicuramente anche di una deformazione professionale». l © RIPRODUZIONE RISERVATA