Gazzetta di Reggio

L’intervista

Francesco Guccini, “il vecchio e il bambino” che si prendono ancora per mano

Cristiano Marcacci e Luca Barbieri
Francesco Guccini, “il vecchio e il bambino” che si prendono ancora per mano

La chiacchierata con il cantautore bolognese: “In un libro la Spoon River della mia giovinezza”

10 ottobre 2024
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Pavana (Pistoia) “Un vecchio e un bambino si preser per mano / E andarono incontro alla sera...”. Ti viene voglia di canticchiarla mentre sfogli l’ultimo libro di Francesco Guccini, “Così eravamo. Giornalisti, orchestrali, ragazze allegre e altri persi per strada”.

L’84enne sempre più scrittore Guccini si volta all’indietro e si vede scorrere davanti le immagini della sua infanzia e della sua giovinezza, divise tra Pavana, dove stava coi nonni, e Modena, città in cui è nato e ha frequentato le scuole. Il vecchio Guccini, quindi, che prende per mano il bambino Guccini e gli racconta cinque racconti che sono cinque piccole storie sullo sfondo della grande Storia, capaci però di trasmettere le emozioni e di una parte di vita vissuta tra la guerra e il dopoguerra. A proposito di emozioni, quel vocione che fa vibrare l’aria e che esclama “Avanti” dopo che gli abbiamo bussato all’uscio di casa a Pavana, sulla montagna tosco-emiliana, è un qualcosa in grado di far tremare i taccuini e le onde delle registrazioni vocali dei cellulari. Quel gigante buono e saggio era lì ad aspettarci, nella sua cucina con l’acquaio in pietra e con le finestrelle che danno sul deserto di verde dell’Appennino che già si sta ingrigendo al pensiero di un altro lunghissimo inverno.

Che Guccini fosse in procinto di uscire con un nuovo libro lo abbiamo appreso da Facebook. Quindi, anche Guccini è su Facebook. Si è per caso convertito ai social?

«Ah non lo so, non li frequento. Almeno, non direttamente».

Che opinione ha di questi strumenti?

«Una volta la gente parlava al bar, le opinioni estemporanee rimanevano tali tra le mura del bar. Oggi invece vanno sui social, si diffondono e divengono verità. Inutili, talvolta disastrose, talvolta pericolose. Quindi, i social possono essere un pericolo».

Nel libro ci sono storie del passato che lei ha vissuto in prima persona e che assumono uno straordinario significato di vita. È la dimostrazione che a volte non importa raccontare di personaggi e che bastano storie di ordinaria quotidianità?

«Nel libro ci sono personaggi, ci sono persone che diventano personaggi. C’è il compagno di scuola (il Colombini, ndr) che muore ragazzino, c’è quello che scende dall’Appennino per fare il giornalista, con una fame bestiale, non ha i soldi nemmeno per comprarsi un panino. Come diventa un personaggio l’ex cantante di operetta, come li diventano l’altro giornalista e il pittore che fanno un’assurda gara di sesso. Personaggi di storie, non c’è mica bisogno che diventino David Copperfield o Ulisse... Personaggi minimi, che fanno parte dell’esistenza che tutti noi viviamo quotidianamente».

Tra i personaggi che ha raccontato a quale è più affezionato?

«Sicuramente al Colombini. Non tanto a lui in quanto Colombini, quanto a me dodicenne, alla fatica delle scuole medie, alla fatica dell’Italia del dopoguerra (quella del 1952, sono passati solo 7 anni dalla fine della guerra), coi ricordi freschissimi di una grande tragedia, coi pantaloni a mezza coscia anche d’inverno. Per me, inoltre, il passaggio da Pavana a Modena, a un mondo in cui ero nato ma che era diventato ormai estraneo».

Ma come morì Colombini?

«Non lo so. Non mi ricordo, forse non l’ho mai saputo. Non mi ricordo nemmeno il nome proprio, perché a scuola, come al militare, ci si conosceva per cognome. Alle superiori sì, ci si conosceva anche per nome, ma alle medie no».

Com’erano le scuole medie di allora?

«Tremende. Mia moglie insegna adesso alle medie, ora sono delle passeggiate. In latino bastava fare cinque piccoli errori per prendere 5».

Lei fu rimandato spesso a scuola media?

«Tutti gli anni. Il primo anno a latino, il secondo a latino e matematica, il terzo a latino, matematica, inglese e disegno. Penso di essere stato l’unico in Italia ad essere rimandato a disegno. Non ha senso. In estate andavo sempre a ripetizione, da Pavana a Modena. Ma di disegno no, ovviamente, e quindi mi sono presentato all’esame di ripetizione senza alcuna nozione in più. Sono stato promosso e buonanotte, non ho mai capito perché fui rimandato a disegno».

È vero che lei lasciò l’Università poco prima della tesi?

«Io ho finito gli esami, ma non ho fatto la tesi. Per due motivi: primo perché ero già dentro le canzoni, facevo già dei concerti. Ho scritto poi, dopo tante ricerche, un dizionario del dialetto di questo paese e questo sarebbe potuto essere la mia tesi. Il problema, però, è che ho dato il mio ultimo esame nel 1970 e il dizionario è uscito nel 1998. Per dare la tesi, quindi, avrei dovuto pagare una cifra assurda. Dissi: “Tenetevi la tesi e la laurea, e buonanotte...”. Successivamente mi hanno dato due lauree ad honorem, quindi posso dire di aver compensato bene».

Come va inquadrato questo libro nella carriera di Guccini scrittore?

«Gli altri miei racconti sono sempre stati locali, dell’Appennino. Ora, invece, dietro a questi racconti c’è Modena, la Modena degli anni Cinquanta, sicuramente molto diversa da quella di ora, anche se non la conosco bene, perché non ci abito più dal 1960. Ci sono nato sì, ma mi ci ritrovai poi nel 1945, in un mondo completamente diverso da Pavana, dove vivevo coi miei nonni, al mulino, una casa isolata con il fiume di fianco. Tutto diverso: a Modena abitavo in un condominio, c’erano strade, non più il bosco, non più il fiume. Sono quindi diventato modenese, parlando anche con l’accento modenese che poi fortunatamente ho del tutto perso. E a Modena ho fatto le medie e superiori e ho cominciato a lavorare».

Da giovane voleva fare il giornalista?

«Sì, è vero. Ho lavorato due anni alla Gazzetta dell’Emilia, ma poi ho smesso perché non mi facevano il contratto. Ero un precario, andavo tutti i giorni, non c’era nemmeno un giorno di riposo. Solo il Primo maggio facevo festa. Si lavorava fino alle tre del mattino, quando il giornale chiudeva. Mi davano ventimila lire al mese, che non erano tante. Dopo un anno feci due settimane di ferie e quando andai a prendere lo stipendio mi aspettavo le solite ventimila lire. “Eh no - mi dissero - Hai fatto due settimane di ferie e quindi ti spettano diecimila lire”. Dopo qualche mese incontrai un amico che suonava la batteria in un complesso da ballo e mi misi insieme a loro, suonavo la chitarra e cantavo».

Il mestiere di giornalista è finito?

«Mah... I giornali vendono sempre di meno, lo sapete meglio di me. Ora ci sono mezzi di comunicazione più veloci. La gente, inoltre, legge sempre di meno. Purtroppo. Io sono nato nel 1940 e quindi sono legato alla carta, ma ora ho grossi difetti alla vista, non ci vedo quasi più, quindi non riesco a leggere. È un guaio per me, io leggevo, leggevo, leggevo... Il mio vizio principale è sempre stato la lettura. Fino a poco tempo fa se qualcuno mi avesse chiesto qual era il mio mestiere principale avrei risposto “quello di leggere”. Leggevo di tutto».

Quindi ora è stato costretto a ricorrere alla televisione?

«Sì, ora guardo molto la televisione».

Le piace l’offerta televisiva?

«Certe cose mi piacciono, certe altre no. Alcune trasmissioni sono buone, interessanti. Altre sono proprio trasmissionacce, delle robe immonde. Non voglio entrare nel merito, ma La7 ha delle ottime proposte, anche il Nove a volte».

Com’è cambiata la sua montagna?

«È cambiata completamente. Per ragioni anagrafiche non c’è più nessuno di quelli che conoscevo una volta. Si sta spopolando in maniera tremenda. Al censimento del 1911 il comune di Sambuca aveva 7.000 persone, ora ce ne sono 1.400 scarse. C’è una bella differenza. I miei amici se ne sono andati tutti, sono rimasti in due. Prima al bar facevamo anche due tavoli di giochi di carte, ora so che si fa fatica a farne uno. Poi adesso c’è una strana morigeratezza, una volta si bestemmiava, ora non bestemmia più nessuno. Una volta si giocava il fiasco, ora, al massimo, si giocano il caffè o qualche caramella. Nella zona si vive di un po’ di terziario, a Porretta c’è qualche piccola industria ma ridotta a pochi operai. Così i giovani non possono avere sbocchi».

Ma lei ci sta bene?

«Sì, ci sto bene. Ci sono fisso dal Duemila, mia moglie insegna a Porretta. Non vedevo l’ora di tornare, ma sono tornato tardi, troppo tardi. Nel senso che sono vecchio, non riesco più a fare le cose di prima, andare per boschi, a funghi, ero un grande camminatore».

È ancora arrabbiato coi cittadini che salgono in montagna e vanno all’assalto dei boschi alla ricerca dei funghi, facendo alla fine una valanga di danni?

Guccini si lascia andare a una fragorosa risata.

«Purtroppo è sempre stato così. Sono i piangiani, i cittadini qui li chiamiamo così. Ora per boschi non ci vado più io, quindi non mi arrabbio».

Tra cent’anni sarà difficile non ricordare Guccini come cantautore, ma lei vorrebbe essere ricordato anche come scrittore?

«Sono un po’ snob e quindi rispondo di sì. Preferirei essere ricordato come scrittore ma tutti mi ricordano come cantautore. Quando vado a fare le terme a Porretta tutti mi fermano e mi dicono “maestro, maestro”. “Ma maestro di che?”, rispondo. Vabè, sono maestro di scuola elementare, ma non mi sento e non mi sono mai sentito un maestro musicale».

Come mai, secondo lei, le sue canzoni sono ancora così tanto ascoltate tra i più giovani? È per via di qualche messaggio in particolare?

«Non ci sono messaggi nelle canzoni, non sono mica un guru, un profeta, io parlo di vita quotidiana. È cambiato anche il mondo della discografia, totalmente cambiato. Recentemente ho fatto due dischi di cover, canzoni non mie, ma che volevo cantare perché mi sono sempre piaciute. Le abbiamo registrate qui, a Pavana: un microfono, un tecnico del suono e basta. Tanto è vero che nella copertina c’è scritto “Studio kitchen” (cucina, ndr). Ora con il digitale uno fa quello che vuole, con l’analogico era diverso: si andava a tracce. Oggi si ascolta con il “tocco”, una volta compravi il disco, il vinile. Per il secondo di questi album è arrivato il disco d’oro: 25mila copie. Una volta ce ne volevano un milione per riceverlo, vuol dire che anche la vendita dei dischi è calata, è cambiato tutto. Chi ascolta musica lo fa attraverso altre cose: proprio come non si legge più, anche ascoltare qualcosa che vada oltre un periodo di tempo e dica qualcosa che faccia pensare, oggi non esiste più...».

Curioso però che un giovane che ascolta la trap ascolti anche Guccini…

«Non è detto, ma molti lo fanno per ragioni familiari: il padre ascoltava magari le mie canzoni. D’estate qui arriva molta gente e diciamo per eredità familiare vengono insieme, padre e figlio, a salutarmi».

Qual è la sua canzone più ascoltata dai giovani?

«Sull'argomento ci sono delle classifiche che io ignoro: una canzone che a me non piace, che la considero inferiore a tante altre, è “L’avvelenata”, ma fu un successo. “Dio è morto”? Da un punto di vista tecnico non è una gran canzone, ne ho scritte delle migliori, dal punto di vista tecnico dico, non del contenuto. “La locomotiva”? Fu molto apprezzata, dissero che era la vera canzone folk, popolare, del dopoguerra: è stata una canzone fortunata».

Come mai Guccini è sempre voluto rimanere distante della politica?

«Distante direi di no: si conoscono le mie idee, quindi distante fino a un certo punto. Sono stato battezzato come uno di sinistra, ed è vero: non ho scritto però canzoni direttamente e veramente politiche, se non “La locomotiva” appunto, anche se è un brano alla moda delle canzoni anarchiche del Novecento. Non ci sono ragioni particolari, si vede che mi venivano di più canzoni esistenziali, canzoni della vita di tutti i giorni, dei personaggi, come certi racconti che scrivo, personaggi minori della vita che incontriamo tutti i giorni: dal pensionato al frate».

Le piace la segretaria del Pd Elly Schlein?

«Sì, abbastanza. Sta ridando uno slancio di sinistra: ma anche Stefano Bonaccini non mi dispiace. Mi piace molto Pier Luigi Bersani: la sua calma, la sua ironia».

Quando si sente parlare nel dibattito pubblico di spettri, di rigurgiti neofascisti, Guccini cosa pensa?

«Penso che ci siano, anche con arroganza. Sono rimasti nascosti per anni e ora stanno saltando fuori come funghi dopo l’acquazzone. Ovviamente non sarà il fascismo degli anni Venti-Trenta, ma lo spirito c’è ancora, questo senso di potere... La Meloni dice che stanno facendo la storia: ma quale storia, andiamoci con calma... La storia è intessuta di stoffa ben più ruvida».

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