Gazzetta di Reggio

In concerto a Bologna il 12 novembre

Paolo Benvegnù: «Vent’anni fa cercavo la libertà, ora so che la vita è un inseguimento»

Elisa Pederzoli
Paolo Benvegnù: «Vent’anni fa cercavo la libertà, ora so che la vita è un inseguimento»

L’artista torna con Piccoli Fragilissimi Film, l’album d’esordio solista. Al Locomotiv con ospite Max Collini ex Offlaga

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È un viaggio all’indietro nel tempo, ma non è un’operazione nostalgia. Sono le mani di un pescatore di perle – per citare una delle canzoni del disco che gli è valso la Targa Tengo 2024 per il miglior album – che riporta a riva qualcosa di perfetto già all’origine, riuscendo nell’impresa di impreziosirla ancora di più. Per poi ributtarla a largo, generosamente. È ciò che ha fatto Paolo Benvegnù con “Piccolo Fragilissimi Film Reloaded”, la riedizione dell’album che nel 2004 segnò il suo esordio da solista, archiviata la fase Scisma. Il tour che lo porta in giro parte martedì 12 novembre da Bologna – sul palco del Locomotiv Club, qui i biglietti – con uno degli ospiti che ha voluto accanto in questo progetto: l’ex Offlaga Disco Pax, Max Collini.

Vent’anni fa usciva Piccoli Fragilissimi Film. Chi era Paolo Benvegnù allora?

«Ero in un momento di disperazione, slacciato completamente rispetto all’esistenza che avevo vissuto precedentemente. Sostanzialmente, ero disperato. Non sapevo dove andare, da dove venivo. Sapevo solo che dovevo essere più libero rispetto alla mia vita precedente: ho lasciato il lago di Garda, dove vivevo, e sono andato a Firenze, per suonare con Marco Parente. Quei brani, sono nati in una camera sotto Fiesole in un appartamento che condividevo con altri 11 coinquilini, tutti universitari tranne io. E facevo il mototaxi per sbarcare il lunario. Oggi lo chiameremmo rider: portavo pacchi nei negozi, soprattutto dentiere agli odontotecnici... E facevo queste canzoni disperate, senza alcuna logica, nella casualità più totale. Poi insieme ad Andrea Franchi ed Enrico Lelmi abbiamo aperto un piccolo studio a Prato e le abbiamo registrate. Non c’è stata alcuna coscienza, tutto è partito per le mie intuizioni e il lavoro fatto con i compagni di allora, perciò è il risultato di un’energia che non è solo mia. Non sapevamo cosa stavamo facendo, né cosa sarebbe successo. Abbiamo iniziato a fare un po’ di concerti e poi ancora di più: tra il 2004 e il 2006 abbiamo fatto 150 date in Italia».

Che ricordi ti restano del nostro Paese in quel periodo?

«Rispetto a oggi, era ancora un’Italia a cavallo del Novecento aziendale, nel senso dei lavori fissi, con un’idea molto allegra della vita. Pre “internettiana”, anche se c’erano già i prodromi. Era un’Italia come sempre sotto scacco delle sue debolezze, una paese dove la furbizia e le aderenze famigliari contano più del valore e della ricerca, ma rispetto a ora c’erano più posti dove suonare ed esprimersi e più gente interessata ad ascoltare, a prescindere dal fatto di essere conosciuti. Era una generazione più curiosa, quella nata tra la fine degli anni Settata e l’inizio degli anni Ottanta. Anche le informazioni su ciò che avveniva erano meno. Oggi, di un evento se ne parla prima, durante e dopo, anche se può non essere in sé straordinariamente meraviglioso. Come diceva Goebbels: dì una bugia cento volte, diventerà realtà. Questo è il mondo che stiamo affrontando, e non è un gran mondo».

Ripubblicare questo album vent’anni dopo è un’occasione di bilanci per te?

«No e non traccio bilanci in generale. Penso di essere molto fortunato perché mi ricordo quasi ogni sensazione che ho provato durante la mia vita e ora in modo più probante, rispetto a una volta. E comunque mi sveglio alla mattina come se fossi un 7enne, dimentico ciò che ho fatto. E così, ogni mattina, è un prodigio di stupore. Perciò non traccio bilanci. Questo disco non lo volevo fare. Mi sembrava un’operazione nostalgia su qualcosa che non era stato importante. Lo era stato per me, per curarmi perché ero malato, ma mi sembrava di entrare troppo nell’intimo. Invece, poi i ragazzi di Woodworm mi hanno convinto, dicendo che per loro era stato un disco importante, un romanzo di formazione, i miei compagni di ora mi hanno detto la stessa cosa: “Divertiamoci, facciamolo in maniera leggera, scardiniamo l’ordine precostituito”. E quando si tratta di scardinare un ordine precostituito, mi sento ben sollecitato. Ma non traggo bilanci perché secondo me gli esseri umani non dovrebbero farlo, ma essere felici istante per istante. La vita fino all’ultimo secondo può sorprenderti in maniera positiva».

Un piccolo bilancio, però, te lo chiedo. Quale è, se c’è, un rammarico, qualcosa che non è andato come pensavi in questi vent’anni e cosa invece sei felice sia accaduto?

«Io ho un rimpianto enorme, ed è un rimpianto antichissimo, che si rinnova in me ogni giorno: il fatto di avere avuto paura della vita e di aver avuto fretta e ansia nel cercare di uscire da questo timore. Per il resto, le cose della vita stessa mi indicano che tutto succede perché deve succedere. Quello che faccio è inseguire la vita, cercando costantemente di suggere, istante per istante, il senso della vitalità, della bellezza, della freschezza. Non sono come chi pensa di domare la propria storia: noi semplicemente la abitiamo come dovremmo abitare questo pianeta, invece di cercare di dominarlo».

Cosa di Paolo Benvegnù di vent’anni fa, che scriveva i brani di Pff, sopravvive e cosa invece è cambiato?

«C’è una differenza: ero iper veloce, e perciò non avevo consapevolezza reale di ciò che dico ora, rispetto al succedere della vita. Ora lungi dall’essere risolto, io sono però la stratificazione delle mie esperienze. Mettiamola così: vent’anni ero fa ero una betulla dal fusto duttile, non estremamente radicata. Ora sono una quercia che sta in questo campo da tanto tempo, lo conosce e lo apprezza per quello che viene. Un uragano, quanto una giornata bellissima. Sono molto felice».

Come è stato riprendere in mano quelle canzoni?

«È stata un’esperienza quasi da voyeur: ho rifatto i pezzi chitarra e voce da solo, in una giornata. Poi ho visto tutti i miei compagni e tutti coloro che hanno partecipato, circa 40 persone, mettersi al servizio di queste canzoni con una gioia e un entusiasmo, che in tutta franchezza, mi hanno stupito. Non ho controllato nulla, per questo è l’album più bello, perché io ci sono molto meno. Come se avessi visto un puzzle 3D formarsi da solo. Mi ha fatto capire che sono sempre molto chiuso, se apro un po’ di più gli orizzonti e il mio sguardo verso gli altri che fanno la stessa mia ricerca, ma in una maniera diversa, ricevo abbracci e carezze. È una bella lezione. Il mio maestro elementare diceva: quando ti danno una carezza impegnati il doppio per averne un’altra. È quello che farò».

Sei partito con un gruppo, poi Pff ha segnato l’esordio solista, ma si sente, perché non manchi di dirlo citando e ringraziando i tuoi compagni di oggi, la ricerca di una dimensione di corale. Paolo Benvegnù non è un solista?

«È vero, non sono un solita. Abbiamo truffato – ride – quelli del Premio Tenco: hanno dato un premio a un gruppo, non a un solista. Mi sento davvero come se fossi il loro megafono. Certo, scrivo le canzoni, ho delle intuizioni, ma senza la relazione con l’altro non esisto. E neanche mi interessa esistere. Mi piace l’idea di mettere in gioco un’intuizione e renderla comune. Spesse volte, a mano a mano, diventa qualcosa di corale. Ho come l’impressione di uscire dall’io per entrare nel noi».

A distanza di tanto tempo, chiudere il capitolo Scisma, pensi sia stato un passaggio necessario o c’è qualche rimpianto?

«Sì, è stato necessario. Gli Scisma erano un gruppo che ragionava per obiettivi. Quando si ragiona così, se si è intelligenti, se si fanno con furbizia i passi giusti, si rischia di arrivare. Ma cosa succede quando finiscono gli obiettivi? È un colosso che ha i piedi di argilla. Non c’è vero piacere in tutto questo. Invece 15 anni dopo, nel 2015, ritrovarsi è stato davvero farlo nella gioia. Abbiamo ritrovato le motivazioni che ci avevano spinto all’inizio. Non c’è musica, non c’è bellezza, se non c’è poesia».

Oggi, i progetti musicale costruiti sugli artisti sembrano davvero correre molto velocemente.

«È esattamente questo. Uso spesso questa metafora tra la musica e un rapporto tra due persone che stanno insieme più per partnership che per amore. Ma quando l’azienda finisce di vendere i prodotti, rischi di perdere veramente tutto. Mi fa ridere un mondo pieno di stimati professionisti. Usando un’altra metafora, ci sono ciclisti professionisti e amatori, quelli che amano quello che fanno. Se uno mi dà del professionista mi offendo».

Sei mai sceso a compromessi?

«Ogni tanto anche io scendo a compromessi, ma molto trascurabili rispetto a quelli che hanno voluto fare altri. È una cosa prettamente italiana: ogni volta che esco dai confini noto che è più semplice. Se uno ha delle cose da dire le dice e viene apprezzato o meno, ma almeno ha lo spazio per dirlo. Mi viene da pensare che questo meccanismo turbo capitalistico secondo cui devi fidelizzare chiunque, persino madre, fratelli e figli, sia la cosa più terribile che possa succedere».

Ogni brano di Piccoli Fragilissimi Film ha un ospite. Nomi importanti come Malika Ayane, Ermal Meta, Pierò Pelù solo per citarne qualcuno. E c’è un brano inedito che chiude l’album che si chiama “Isola Ariosto”, dove l’ospite è Max Collini. Come nasce?

«Ho avuto la fortuna di presentare a Perugia dove vivo il libro che Max ha scritto con Arturo Bertoldi “Storie di antifascismo senza retorica”. Io e Max ci conosciamo da tanti anni, abbiamo partecipato a tanti concerti insieme, lui con gli Offlga io con i Benvegnù, ci vogliamo bene. Nel suo libro c’è questa poesia molto bella di sua madre, che riguarda il fatto che certe cose rimangono sempre uguali. Mi sembrava bello finire così un disco dove tutto è metamorfosi e desiderio di cambiamento. Per tenere a terra il lavoro stesso, per paradosso. E anche per ricordare che un giorno ognuno di noi dovrà scegliere dove andare».l

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