Gazzetta di Reggio

L'intervista

Federica Benassi: «Sempre più figli imperatori che comandano, invece bisogna educare all’empatia»

Chiara Cabassa
Federica Benassi: «Sempre più figli imperatori che comandano, invece bisogna educare all’empatia»

La counselor esperta di dinamiche familiari alla libreria Coop All’Arco con il suo libro “L’educazione dei maschi”

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Reggio Emilia Ascolto ed empatia. Capacità di gestire le emozioni. Attenzione al figliarcato. Tutto facile? Assolutamente no. Ma parte da qui una visione pedagogica che crede nell’importanza dell’educazione emotiva per prevenire la violenza di genere. Ne è convinta Federica Benassi, counselor esperta di dinamiche familiari nonché educatrice con esperienza trentennale nell’asilo nido che ha fondato, oggi pomeriggio (ore 18) alla Libreria All’Arco in via Emilia Santo Stefano per presentare il suo ultimo libro “L’educazione dei maschi” edito da Minerva. A dialogare con Federica Benassi sarà Davide Berti, direttore della Gazzetta di Reggio.

Dal suo osservatorio privilegiato, come leggere in un bambino o in un adolescente la propensione alla violenza? E come estirparla?
«Non posso che tirare in ballo il concetto di figliarcato analizzato da Crepet. Purtroppo mi trovo davanti sempre più spesso a figli imperatori che comandano, sfidano e aggrediscono anche fisicamente i genitori. A 3 anni decidono dove deve andare in vacanza, mamma e papà obbediscono. Alla base c’è un pericoloso egocentrismo che nasconde l’incapacità di gestire le emozioni. Ma non dobbiamo meravigliarci, quando gli stessi adulti fanno fatica a gestire le loro emozioni. Ci vuole del lavoro: bisogna imparare a gestire la propria rabbia, poi trasmettere questa consapevolezza ai figli. Vogliamo parlare dei papà peluche completamente sottomessi? Da qui la scomparsa dei “no”. E se il primo “no” arriva dalla fidanzatina, può essere una tragedia».
Genitori sempre più in difficoltà?
«I genitori sono oggi estremamente adulti e spesso persi. È un periodo folle, mai vista tanta ansia. Ansia che viene naturalmente trasmessa ai bambini. I genitori temono di deludere i figli ma in realtà questa incertezza genera solo insicurezza e smarrimento».
Nel libro viene sottolineata anche l’importanza dell’educazione all’empatia. Come funziona?
«Innanzitutto empatia non significa proteggere i figli da qualsiasi cosa. Perché allora finisce che al nido non puoi neppure raccontare Cappuccetto Rosso, perché c’è il lupo. E a scuola, se arrivano brutti voti, i genitori si trasformano in sindacalisti. Questo approccio porta i bambini a essere incapaci di affrontare le difficoltà. Educare all’empatia significa sospendere il giudizio, mettersi accanto ai figli, ascoltarli e aiutarli a riconoscere e a dare un nome alle emozioni. Solo così potranno riconoscere e quindi rispettare i sentimenti degli altri».
Tutta colpa dei genitori? La scuola non dovrebbe avere un ruolo fondamentale?
«Va detto che in Italia la famiglia non è aiutata. Rispetto ad altri Paesi europei che sostengono il ruolo genitoriale, qui la maternità e la paternità sono sempre più un lusso che pochi possono permettersi. Ma andando oltre, e tornando alle emozioni, basti pensare che in Svezia l’empatia è parte del curriculum scolastico per i più piccoli. Bisognerebbe iniziare a lavorare sulle emozioni dai 3 ai 6 anni con le aule, alle materne e poi alle elementari, considerate anche come spazi di crescita emotiva. Purtroppo, all’interno delle scuole, i progetti esistono spesso solo sulla carta, ma non vengono attivati o a un certo punto si bloccano. Con sportelli d’ascolti faticosi da gestire perché mancano le persone. Senza una collaborazione tra famiglia, scuola e contesto sociale, faremo crescere dei giovani fragili, arrabbiati e insicuri».
Non manca nel libro un riferimento alla mancanza di educatori uomini nei nidi e nelle scuole d’infanzia.
«Premetto, perché è doveroso, che psicologicamente una mamma quando vede un educatore maschio alza le antenne. Detto questo, in 29 anni di esperienza al nido quanti insegnanti uomini ho visto? Pochissimi. Penso che sia un errore. La presenza di educatori rappresenterebbe un valore aggiunto. Perché significherebbe offrire ai bambini modelli educativi sia maschili che femminili, arricchire la loro crescita emotiva, fare in modo che apprendano attraverso le differenze. Cura e ascolto non hanno genere».
Qual è la sfida che si è posta?
«Ho indagato su violenze di genere, genetica, cronaca, cultura patriarcale. La mia intenzione era quella di fare un discorso non solo educativo ma un’ analisi dettagliata delle varie fase sociali e storiche attraversate. Senza dimenticare che oggi sono tante le componenti che influiscono negativamente a partire dalla tecnologia lasciata nelle mani dei bambini ancora troppo piccoli. Ho cercato poi di trasmettere qualche strategia che può aiutare a crescere i figli maschi. Nella convinzione che la società può evolvere e diventare più coesa anche attraverso nuovi metodi educativi». © RIPRODUZIONE RISERVATA