Giulio Scarpati: «“Un medico in famiglia” fu una grande fortuna. Un’altra stagione? Meglio inventare cose nuove». Ora arriva al cinema nei panni di Giuseppe Verdi
L’attore protagonista del docufilm “Viaggio tra musica, terra e identità”. «Sono sempre alla ricerca di qualcosa che mi faccia sperimentare cose distanti da me»
C’è stato un periodo in cui metà Paese, o forse anche di più, sognava di averlo come padre. Erano gli anni del boom tv di “Un medico in famiglia” e Giulio Scarpati era il papà d’Italia. Un successo che ha permesso all’attore romano di poter spaziare tra cinema, tv e teatro, ma soprattutto di scegliere i progetti più vari. Da ultimo, il docufilm “Le stanze di Verdi”, diretto da Riccardo Marchesini, un road movie alla scoperta del grande compositore e musicista al cinema dal 6 ottobre, in cui Scarpati impersona un attore che si trova a viaggiare nei luoghi cari a Giuseppe Verdi.
Scarpati, il suo primo incontro con Verdi?
«A Ravenna andai a vedere la mia prima opera ed era proprio una di Verdi, con Renato Bruson. Io già amavo la musica classica, ma sono arrivato a Verdi dopo essere passato per Mozart. A me piace molto la musica. Quando mi hanno proposto il documentario mi piaceva proprio l’idea di questo mio doppio ruolo: spettatore e intervistatore. Passando per tutti quei luoghi capisci tante cose di Verdi».
Cosa l’ha affascinata del Maestro?
«Verdi era anche un agronomo, aveva due caseifici. Ed era anche molto innovativo in questa veste. Per me che lo conoscevo solo come musicista è stata una sorpresa vedere come questo amore per la sua terra finisse poi nella sua musica. Verdi era uno che trasferiva nelle sue opere quello che era nella realtà».
Quanto è importante Verdi nella storia del nostro Paese?
«Le arie di Verdi si cantavano per strada, era una musica popolare. Io credo che il suo merito maggiore sia stato di avere contribuito a unificare un Paese che andava verso l’unità ma era ancora molto diviso. Ha unificato il sentimento di appartenenza alla nascente nazione».
Il primo ricordo musicale?
«A 5 anni ho iniziato a suonare il pianoforte. A 12 la mia insegnante purtroppo è morta, ho smesso e non ho più ripreso. In quello stesso periodo ho debuttato a teatro e la passione per il palcoscenico ha avuto la meglio su quella per la musica. Che però continuo ad ascoltare: classica, pop, rock».
Ha capito subito che avrebbe fatto l’attore?
«Quando studiavo pianoforte volevo fare il direttore d’orchestra, poi come ho iniziato a fare teatro mi sono dedicato seriamente alla recitazione. A 16 anni ho iniziato la scuola con una vecchia attrice dei “telefoni bianchi”, Elsa De Giorgi. Poi è arrivata la cooperativa sociale con gli spettacoli negli ospedali psichiatrici, infine ho messo il naso nel teatro ufficiale con lo Stabile dell’Aquila: c’era anche un giovane Sergio Castellitto».
Primo ruolo importante al cinema in “La riffa” con una esordiente Monica Bellucci.
«Era una di una bellezza disarmante, un viso che veniva benissimo sullo schermo: c’erano tutte le premesse per capire che sarebbe diventata la star di oggi».
Nel 1994 il successo con “Il giudice ragazzino” su Rosario Livatino, ucciso dalla mafia.
«Raccontare un personaggio realmente esistito, ai tempi con i genitori ancora in vita, era una grande responsabilità. Quel film è stata la scoperta di una persona straordinaria, un uomo che aveva un rigore fortissimo verso se stesso. “Quando moriremo non ci diranno se siamo stati credenti ma credibili”, diceva. Legava la sua fede alla pratica, alla coerenza. È l’esperienza più importante che ho avuto». Ha anche avuto modo di incontrare i genitori del giudice. «Andai a trovare il padre e la madre durante le riprese: fu un incontro pazzesco. Poi rividi il padre quando la mamma non c’era più. Purtroppo la beatificazione è arrivata quando non c’erano più entrambi. La morte di un figlio è un dolore troppo grande per un genitore che nulla può attutire, ma sarebbe stata una sorta di risarcimento».
Nel 1998 arriva la grande popolarità: “Un medico in famiglia”. È vero che all’inizio aveva più di un dubbio?
«Erano 26 puntate di 100 minuti l’una, 14 mesi di lavorazione. Ma in quel periodo giravo un film tv in Venezuela, “La casa bruciata”, e mentre ero al confine con la Colombia accesi la tv e vidi una puntata del “Medico in famiglia” spagnolo. Era un segno del destino e accettai. Tornai a Roma e al primo incontro con i bambini avevo un barbone alla Robinson Crusoe».
Non era convinto neanche della presenza di Lino Banfi.
«Vero, ero un po’ reticente, lui veniva dai film scollacciati degli anni Ottanta. Ma poi sul set è cambiato tutto e i pregiudizi sono andati via».
Il personaggio di Lele Martini è stato anche una gabbia?
«In parte sì, ho dovuto lasciare la serie per poter fare anche altri lavori. Il nostro mestiere è scegliere tra cose diverse e così era troppo riduttivo. Ma il “Medico” è stata anche una grande fortuna che mi ha permesso di fare lavori che magari non mi avrebbero fatto fare. Tipo “L’idiota” di Dostoevskij».
Lino Banfi continua a chiedere un’ultima stagione.
«Io penso che quel racconto sia legato a quegli anni, con la fiction italiana che finalmente scalzava quella di importazione. Oggi sarebbe meglio inventare cose nuove. “Adolescence” per esempio è un capolavoro che racconta la contemporaneità. In Italia ci vorrebbe più coraggio, bisogna rischiare di più».
Ha un rimpianto? «Forse Tortora nel film tv di Ricky Tognazzi: feci il provino, poi il ruolo lo prese lo stesso regista. Mi sarebbe piaciuto interpretare questo personaggio vittima di una enorme ingiustizia. Ma sinceramente con tutto quello che ho fatto nella mia carriera sarebbe folle recriminare quello che non ho fatto».
Nuove sfide?
«Sono sempre alla ricerca di qualcosa che mi faccia sperimentare cose distanti da me. Ho la fortuna di poter scegliere: per esempio sto facendo uno spettacolo su Giovanni Pascoli in cui io parlo al cane del poeta - un poeta geniale - che è morto».
Altri progetti?
«C’è una cosa a cui tengo molto. C’è una campagna di InterSos in cui ci ho messo la faccia. Fino al 16 ottobre è attivo un numero - 45588 - per dare un aiuto concreto ai bambini in Paesi alle prese con crisi umanitarie. Credo che in un momento in cui si vedono troppe guerre, troppi leader che minacciano bombe, sia nostro compito provare a ritornare a essere umani».l © RIPRODUZIONE RISERVATA
