Gazzetta di Reggio

Reggio Emilia

Incontro con Mariangela Gualtieri: «Catturata dalla parola»

Giulia Bassi

	Mariangela Gualtieri
Mariangela Gualtieri

“Vola Alta Parola” alle 21,30 di venerdì 15 luglio a Palazzo da Mosto

14 luglio 2022
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Reggio Emilia Con uno dei numi tutelari della poesia italiana, Mariangela Gualtieri che è anche un personaggio amatissimo, prosegue la rassegna “Vola Alta Parola”. Sarà protagonista dell’incontro di domani a Palazzo da Mosto (ore 21.30) in cui dialogherà con Roberto Galaverni, critico del Corriere della Sera a proposito del suo ultimo libro “L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia” (Einaudi 2022). Punto di partenza l’esigenza di dare voce viva alla poesia, di diffonderla «come si dà il pane agli affamati, perché sempre più la denutrizione è psichica e interiore».


Mariangela, a proposito dell’incanto fonico… trovo bellissima la parola incanto: mi dà la sua definizione?
«Anche a me piace questa parola e anche l’intero titolo rubato da un saggio di Amelia Rosselli. C’è dentro la parola “canto”, c’è un tacitarsi del lavorio cerebrale, c’è un’onda estremamente dolce e musicale, c’è la magia e l’incantesimo e molto altro nella parola incanto. Non voglio definirla ma lasciarla aperta alle sue molte risonanze, coglierla nell’intuito più che razionalmente, per quello c’è il dizionario».

Quando Mariangela è incantata?
«In me l’incanto più potente viene da fenomeni naturali anche molto piccoli. Spesso c’è un incanto uditivo, con la musica e il suo potere di suscitare in noi acuti moti interiori. In quelli e quelle che mi ascoltano colgo l’incanto dalla sottigliezza del loro respiro, un respiro sospeso che tiene tutti immobili e dunque lo riconosco dalla qualità del silenzio della sala. Anche perché di solito sono abbagliata dai fari e non vedo il pubblico ma lo odo profondamente».

Dire e leggere una poesia che differenza fa?
«La stessa che c’è fra leggere uno spartito di Bach o suonarlo al violoncello: abissale. Un ulteriore distinguo lo facciamo rispetto agli attori che recitano. Gli attori si formano per un grande lancio della parola e spesso quindi enfatizzano il verso che invece chiede poco e niente, e forse anche meno di niente perché chiede la scomparsa dell’interprete e dell’interpretazione».

Lei dice che è nata prima come voce che dice… abituata all’oralità… cosa è successo dopo?
«Il racconto tenta la semplificazione di qualcosa che è quasi indicibile, come lo è il perché di ogni atto espressivo. Direi che più che prendere la parola, nel cominciare a scrivere, sono stata presa, catturata dalla parola. Ho cominciato a scrivere perché non ne potevo fare a meno e avevo l’impressione che mi sarei ammalata se non lo avessi fatto».

Che effetto le faceva leggere Eschilo, Rilke…
«Mi sembrava di scriverli al momento, di farli accadere in quel momento per la prima volta. È in parte quello che dice Borges , “chi legge le mie parole le sta inventando”, e non c’è in questo supponenza o appropriazione indebita. È così, quando si ama qualcosa, la si riconosce, si risuona con essa come se fosse parte di noi».

È migliore la voce naturale o al microfono in una sala in cui si sente comunque?
«Il microfono non ha solo un ruolo amplificante. Il microfono permette quasi di parlare all’orecchio di ognuno, in intimità. Mette in evidenza il silenzio di cui è impregnata la parola poetica e inoltre è un grande sbugiardatore, cioè amplifica le falsità della voce e le vanità dell’interprete. La poesia è parola veritiera e mal sopporta gli artifici, e soprattutto non ne ha bisogno».

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